Il caldo è massacrante, mi aggiro senza forze nella penombra della casa tra una stanza e l'altra cercando di riempire una nuova improvvisata valigia, per una nuova e improvvisata partenza.
Da quando sono tornata dal Cammino non ho fatto altro che sopravvivere al ritorno alla normalità.
Come ogni rientro è stato duro, ma più di qualunque altro rientro ho dovuto fare i conti con me stessa perché stavolta non bastava girare la faccia dall'altra parte quando la incrociavo riflessa nello specchio.
Camminare per giorni in mezzo a un meraviglioso nulla fatto di silenzi, colline morbide e gialle di grano, cicale e passi è un'esperienza stranissima che ti restituisce a una dimensione primordiale.
Ho sperimentato il caldo più insopportabile sulla testa, il peso dello zaino sulle spalle, il male alle gambe e il dolore e le vesciche ai piedi, il letto scomodo e i vicini sconosciuti che russano o fanno rumore, la sveglia all'alba, la sete che sfianca.
Ci sono state salite che mi sembravano infattibili e a metà delle quali ho avuto la tentazione di rigirarmi e tornare indietro.
Ma poi sono andata avanti, fino alla prima ombra, fino al primo paese o alla prossima fontana, perché in fondo ero lì proprio per quello, per provare a me stessa di essere in grado di andare oltre ad ogni imprevisto e fatica.
La dimensione del cammino è qualcosa di difficilmente comprensibile fino a quando non ti appresti a muovere il primo passo sulle tue gambe.
Puoi leggere, puoi ascoltare chi lo ha fatto, puoi guardare film e sfogliare libri di foto, ma nulla sarà comprensibile fino a quando non saranno le tue scarpe ad essere impolverate e le tue spalle a portare il peso che hai scelto di tirarti dietro.
Sì, questo soprattutto mi ha insegnato il cammino: che il peso che ci accompagna, in gran parte, lo scegliamo noi e io, ora mi è chiaro, non ho più bisogno di pesi inutili.
Durante il cammino si impara a selezionare con attenzione, a ristabilire una nuova priorità tra le cose, a portare con noi solo l'essenziale per poi abbandonarlo per chi ne avrà bisogno.
Voglio viaggiare leggera, magari anche più sola, ma senza zavorre altrui, senza le complicazioni superflue, senza timori non necessari, senza ombre ad oscurare il mio viaggio.
Preferisco la leggerezza dell'assenza al peso di una presenza non chiara.
Non ho più bisogno di portarmi dietro storie intricate, fiducia tradita, parole dette con leggerezza.
Preferisco scegliere con cura i pesi da lasciare.
E camminando nel nulla ho scoperto una me più forte del previsto.
Il cammino è pausa dalla fretta, è poesia dove intingere lo sguardo, è silenzio dove tornare a sentire i nostri passi e ritrovare la direzione giusta, quella che davvero sentiamo essere la nostra.
Le nuvole gonfie, i cieli bassi, le sagome degli sconosciuti che per brevi tratti ci camminano accanto, le lingue diverse che si intrecciano tra i giorni, il profumo delle pinete e della lavanda, le viti che si arrampicano sulle curve dolci, le vite che si arrampicano sulle salite difficili, i nomi dei paesi in una lingua diversa da tutte le altre, le scarpe che si sporcano, i lividi sulle spalle, i girasoli che sorridono, la doccia dopo ore di caldo e fatica, i piedi all'aria durante la sera, la birra chiara al tavolino di un bar, le comari del paese che parlano di cucina, il sentirsi parte di qualcosa comune eppure di così unico per ogni persona che cammina, la sensazione del tempo sospeso, il superfluo che svanisce, le cose vere che riappaiono, la mancanza che svela, il desidero che non finisca mai.
Il desiderio di tornare a camminare senza pesi superflui sul cuore.
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