domenica 30 aprile 2017

Giorno ottanta: di onde, code felici e aria salata.

Spesso i cambi di programma nascondono piacevoli sorprese.
Ieri mattina avevo in mente di andare al mercato dell'usato e poi vedere un film al cinema con un'amica, ma una serie di eventi fortuiti hanno completamente scombussolato i miei piani e non solo quelli di ieri, ma anche di oggi. 
La mia amica, infatti, mi invita al mare. 
Invito inatteso e accettato entusiasticamente all'istante.

Ogni anno il primo incontro con il mare è un rituale importante e che si carica di magia. 

Il corpo ancora infreddolito e biancastro è reduce dai lunghi mesi invernali passati dentro casa e ha bisogno di un po' di tempo per adattarsi alla luce e al caldo che tornano. 
Ogni volta che arriva il momento del primo costume è sempre un trauma.
Terribile vedersi addosso quel non colore indefinito che non fa che risaltare ogni minuscola imperfezione del nostro corpo. 
Sarebbe bello che esistesse una sorta di passaggio automatico dal pallore dei mesi freddi al colorito che si acquista grazie a qualche giornata al sole. Invece non è così: quel colore dorato che fa rifiorire in pochi giorni i più fortunati, io ci metto settimane a raggiungerlo. 


Ma la bellezza del rincontro con il mare, dopo quasi un anno, supera ogni timore di apparire ridicoli o inadatti.
Così quest'anno, ho preso coraggio e senza nemmeno farlo apposta, ho anticipato notevolmente il momento della prima esposizione. 

Non appena arrivate nelle vicinanze dei primi paesi di mare l'aria profuma di sale, la temperatura si fa più dolce, ogni cosa si stempera nelle mille sfumature del blu. 
Oggi era una giornata fresca, molto fresca.

Dopo qualche ora di sole e di chiacchiere fitte, il vento ha iniziato a soffiare per regalarci l'incanto di una spiaggia deserta.

Un coraggioso in acqua, una coppia a passeggio e un cane scodinzolante, noi.
Intorno solo la voce magnetica delle onde che tornano ad infrangersi sulla battigia, suonando sempre la stessa canzone ipnotica, molti sassolini grigi e rosa, piatti e tondi, qualche gabbiano che si lascia trasportare nel vento, gli occhi che si gonfiano di tutta la bellezza che solo il mare sa regalare. 

E mentre mi perdo nella forza di questo rincontro d'amore che ogni anno rinnova il suo incanto, mi tornano alla mente i versi di Baudelaire: " Sempre il mare, uomo libero, amerai! Perché il mare è il tuo specchio; tu contempli nell'infinito svolgersi dell'onda l'anima tua".

Il mare, una poesia semplice che sa di libertà.









sabato 29 aprile 2017

Giorno settantanove: una lettera di carta.

Giovedì pomeriggio, pausa pranzo.
Rientro a casa e dopo un'ora devo tornare a scuola.
Ma questo non mi impedisce di rubare qualche istante alla fretta perenne per dare una sbirciata alla buca delle lettere: intravedo una busta bianca.
Infilo la chiave piccola, giro e apro.
So già che sarà qualcosa da pagare: dopo il bollo della macchina è arrivata anche la tassa sui rifiuti, in questi giorni.
Invece, con mie enorme sorpresa, si tratta di una lettera, una lettera vera, di quelle scritte a mano da un amico.
Che emozione!
Riconosco immediatamente la calligrafia elegante sul dorso della busta.
Faccio la scale due a due, morendo dalla voglia di aprirla!

Non ricevo lettere da anni e mi sembra una cosa meravigliosa tenere di nuovo tra le mani una piccola busta bianca con il mio nome scritto in nero, sapendo che lì dentro ci sarà qualcosa di molto bello, qualcosa che qualcuno di speciale ha deciso di regalarmi.

Mangio di fretta un boccone e poi metto la caffettiera sul fuoco.
Apro la tavoletta di cioccolato fondente, ne stacco un quadrato e lo appoggio sul piattino.
Mi siedo in attesa che il profumo invada il soggiorno e solo dopo aver versato il caffè bollente nella tazzina, apro lentamente la busta.
È un momento di magia quello dedicato alla lettura, sempre, ma lo è ancor di più se si sta leggendo qualcosa indirizzato solo ed esclusivamente a te.

Sono due facciate fitte, le parole scorrono veloci in una prosa piacevole.
Qui si parla d'amore, non poteva che essere altrimenti.
Mi sento doppiamente fortunata ad avere nella mia vita qualcuno capace di provare ancora emozioni simili e soprattutto qualcuno che mi dedichi del tempo per condividere con me questi sentimenti.
Sentirsi incantati davanti a due occhi nuovi, sentirsi persi in quello sguardo. Che sensazione indescrivibilmente preziosa: una sensazione che ho perso in due occhi che ormai sono lontani.
Ma una sensazione che conosco bene e che mi manca.
Provo una sorta di invidia bella per quel suo folle sentire, quel suo sentire in ogni millimetro della propria pelle che non esiste al mondo nulla di più incredibile di quello sguardo.

A volte mi domando se la vita senza amore possa aver un senso.
Per fortuna non ho troppo tempo per approfondire la questione.

Rileggo la lettera, mi riprometto che gli risponderò.

Ormai è ora di uscire di nuovo.

Ripiego il foglio e lo infilo nella busta.
Prendo la busta e la metto tra le pagine della mia agenda, in borsa.

Oggi voglio che questa lettera, che sa della magia delle cose inattese, mi faccia un po' di compagnia.









mercoledì 26 aprile 2017

Giorno settantotto: in viaggio.

Si può viaggiare molto nella vita eppure non vedere nulla.

Oppure, si può viaggiare molto poco o non abbastanza quanto si vorrebbe, ma riuscire a incontrare, scorgere, intingere gli occhi, immergersi a pieno stabilendo un contatto quasi carnale con i luoghi che si percorrono.

Anche con quelli di tutti i giorni.

Anche con le strade che calpestiamo quotidianamente, innamorandosi di cieli consueti o angoli familiari.

Proust scriveva che " Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi".
Mai come in questo caso posso sentirmi in sintonia con lui.
Credo che la passione per il viaggio ce la portiamo dentro sin da piccoli, che sia un po' una sorta di malattia che più coltivi e meno riesci a tenere a bada. Appena torni da un posto nuovo vorresti immediatamente ripartire.
Io di viaggi importanti ne ho fatti tanti, ma uno, in particolare è stato decisivo ed è stato quello che mi ha regalato occhi nuovi verso la vita.
Da quella prima domenica mattina a Madrid, sola, a spasso senza meta in una nuova vita improvvisata dall'oggi al domani, proprio come un vero flânuer, ho imparato a sorprendermi, o per meglio dire, ho re-imparato ad innamorarmi, di ogni luogo che percorro.
Pensavo a questo oggi, mentre immersa nel silenzio delle otto di mattina respiravo la luce del giorno tra le foglie.
Ci pensavo anche mentre camminavo in centro con il naso all'insù, persa nella perfezione del soffitto di una delle tante meravigliose gallerie torinesi: dentro fiorivano tavolini pieni di gente, una ragazza con un cappuccino ed un libro, una coppia che rideva rumorosamente, una signora con un cane accucciato ai piedi.
Ci pensavo, poi, più tardi, mentre attraversavo l'immenso ed elegantissimo salotto della città, la piazza delle chiese gemelle.

Io credo che il segreto stia nel sapersi sorprendere ancora.
Ancora, dopo anni e anni, riuscire a scorgere un'angolazione nuova, un dettaglio mai notato prima, una sfumatura diversa delle cose.
E tornare negli stessi luoghi ad ore diverse per apprezzarne la luce che cambia, in stagioni diverse per godersi lo spettacolo dei colori che mutano la visione, per sentire la vita che intreccia nuove storie, nell'incontro casuale con altre vite.

Il viaggio è dentro di noi, prima che fuori.

Me ne accorgo sempre di più e sempre più sono riconoscente al caso o alla vita o alla mia testardaggine, non so bene a chi, per questa inesauribile voglia di sorprendermi ancora dinnanzi a tanta bellezza.

Senza occhi nuovi, non si può partire.

Senza lo stupore, non siamo nulla.





martedì 25 aprile 2017

Giorno settantasette: una somma di piccole cose.

Venticinque Aprile, un giorno importante.

La parola liberazione assomiglia alla parola libertà, per questo è fondamentale non dimenticare.
Non si fa che parlarne.
Mi chiedo quanti di noi, in realtà si siano soffermati qualche istante a riflettere sull'importanza della memoria.

La Storia è maestra: ci insegna a non ripetere gli stessi orrori.
O almeno, così dovrebbe.

La Storia universale, sì, ma anche la storia, quella con la lettera minuscola, la storia personale e segreta di ognuno di noi.
Ci insegna a non ripetere gli stessi errori del passato.
O almeno, così dovrebbe.

In questa giornata così Sacra, anche il mio piccolo mondo sa di liberazione e aria nuova.

Un somma di piccola cose, che rendono magica una giornata speciale nel suo essere comune.

Di oggi voglio ricordare, in ordine sparso: la sveglia senza sveglia dopo dieci ore di sonno profondo, la prima notte dopo varie poco serene, un'ora e mezza senza interruzione dedicate alla lettura del mio libro sul Cammino in lingua spagnola, la pasta zucchine e curry di mamma, la ciambella senza lievito che non si è gonfiata, qualche chilometro in bicicletta sotto un cielo nero che minacciava pioggia, ma io mi armo di mantella fiorata di Tiger e ottimismo e parto ugualmente, - quando il cielo è plumbeo il verde è ancora più verde, i colori sembrano accendersi per compensare il buio del cielo-, il gatto che osserva il cortile dalla finestra del bagno, ascoltare un album intero dei Pulp, la doccia profumata e la maschera per i capelli, il caffè accompagnato dal cioccolato residuo delle uova di Pasqua, una mail a una persona lontana, il tempo dedicato a studiare itinerari da fare a piedi, la cena a casa di un'Amica dove tra gatti seduti a tavola, risate e danze improvvisate ritrovo l'atmosfera che respiro ogni volta che siamo insieme, quella che mi fa sentire Noi due e il profumo di tutte le cose che abbiamo vissuto insieme negli anni, l'infuso arancia e non ricordo cosa che sto sorseggiando adesso.

Domattina si torna al lavoro, ma non sarà Lunedì.
Saremo già a metà settimana.
Questa è un'ottima notizia.

La caffettiera è pronta in cucina, la maglia a righe sulla sedia insieme ai jeans.
Sul letto i gatti mi aspettando addormentati.

Ogni cosa sa di me.
Non serve altro.


                                          https://www.youtube.com/watch?v=SEMTbbfY7Ek





lunedì 24 aprile 2017

Giorno settantasei: visualizzato, non risposto.

Finalmente arriva il tanto desiderato fine settimana, eppure, come per uno strano sortilegio, spesso accade qualcosa che lo rovina mandando all'aria tutti i piani che avevamo.

A dire il vero non era questo il mio caso: l'unica cosa a cui avevo deciso di dedicarmi, questo week end, era svuotare la sedia della camera da letto dalla massa ingombrante di abiti, piegarli, depilarli (sì, depilarli! Vivere con due gatti implica che devi depilare anche i tuoi vestiti!) e farli tornare nell'armadio, restituendo così la sedia alla sua funzione originaria, quella cioè, di mobile dove potersi sedere.
Ma da venerdì notte un mal di denti insistente e insopportabile non mi dà tregua, lasciandomi dormire poco e male, impedendomi di presenziare a uno spettacolo teatrale al quale tenevo moltissimo, non permettendomi di fare nulla di quello che vorrei fare.
Cerco di sopravvivere tra antidolorifici, zenzero e collutorio.

Così mi arrendo e me ne resto a casa.
Ma la nota positiva della giornata arriva verso mezzanotte, quando ormai pensi che per oggi, non avrai proprio nulla da celebrare: e ti sbagli!

Ore 23.35: messaggio su whatsapp di quella persona a cui hai chiesto di non farsi più sentire.
Dolore lancinante, perché in realtà, tu avresti una gran voglia di sentirlo e anche di vederlo.
Lo leggi.

E non rispondi.

Lo rileggi, lo guardi, lo rileggi.

E non rispondi.

E sai che questa volta, non risponderai.
Nemmeno più tardi, colta dalla nostalgia.
Nemmeno l'indomani, sentendo una fitta di mancanza.

Non rispondi.
Hai scelto di non farlo, questa volta davvero.

Perché hai imparato che il tuo tempo è prezioso e lo vuoi regalare solo a chi lo merita.
Perché tu sei importante e solo chi si comporta tenendoti presente, solo chi riserva per te uno spazio nella propria vita simile a quello che tu riservi per lui, è degno di averti.
Hai imparato con immensa fatica -e ogni giorno te ne devi ricordare- a scegliere chi arricchisce la tua persona e a lasciare indietro chi ti usa per i propri comodi, chi si ricorda di te solo quando ha bisogno, chi ti chiede come stai e ascolta la risposta, chi ti vuole realmente con sé e non chi ti cerca per colmare vuoti, per alleggerirsi dalla sua immondizia svuotandotela addosso, chi ti vuole solo per nutrire il proprio narcisismo.

Hai capito che per quanto importante possa essere qualcuno, non dovrà mai esserlo più di quanto tu non lo sia per te stessa.

Non rispondi.
Hai scelto di dire di no.
Hai imparato a dire no.

Hai messo uno stop sul tuo cuore.
Non hai più intenzione di dare tutto a chi non dà.
Ora è tempo di fermarsi e lasciare che tutto scorra, mentre lentamente ti riappropri di te stessa.
Non c'è fretta, non ci sono treni che passano, non ci sono cose che avrebbero potuto essere e non sono state.
Ci sei tu che non vuoi più darti a chi non sa darsi con la stessa generosità.

Visualizzato, non risposto.







sabato 22 aprile 2017

Giorno settantacinque: un biglietto verso me stessa.

Oggi è stato un sabato sprecato.
O quasi.

Mi ero ripromessa di stare a casa dove ho centinaia di arretrati che solitamente ignoro a favore di qualche programma più interessante.
A volte, nel fine settimana sento anche il desiderio e la necessità mentale -e fisica- di staccare davvero, di non prendere impegni, di passare anche del tempo senza far nulla o per meglio dire, di fare qualcosa, ma senza averci pensato prima.

La notte in bianco passata a rigirarmi  nel letto per via di un doloroso mal di denti mi ha lasciata uno straccio e oggi non ho praticamente combinato nulla.
Ma una cosa bella, davvero bella, è successa anche tra le mura di casa, anche senza bisogno di muovermi: ho comprato il biglietto per Pamplona, punto di partenza del mio cammino di Luglio.
L'idea di aver mosso il primo vero passo verso questo progetto che da tempo accarezzavo dentro di me, mi emoziona da morire!
Finalmente vedo concretizzarsi un desiderio che inseguivo da anni e so benissimo che se, per mille motivi, non sono riuscita a farlo prima, è perché dovevo farlo esattamente adesso.
Le cose accadono sempre nel momento in cui devono accadere.
Che spesso non ne capiamo il senso, è un altro discorso,
Ma se mi guardo indietro, oggi, potrei spiegare il perché di tante esperienze vissute o non vissute in quel preciso periodo della mia vita.

Con questa certezza, mi abbandono fiduciosa verso il mio Viaggio, cercando di non avere aspettative, ma con la speranza che sarà un cammino verso me stessa, un percorso di coerenza verso quello che davvero sono.
Perché il vero problema, una volta che hai capito chi sei, è imparare ad abbracciarlo quell'essere così unico e meraviglioso, nella totalità delle sue imperfezioni e della sua bellezza.

Quando penso a me, a quello che sono e a quello che ero, ma soprattutto a quello che vorrei arrivare ad essere, mi sembra di assomigliare al mio guardaroba: pieno zeppo, straripante di abiti, accessori e capi interessanti con una storia e una personalità, tanti vestiti che nemmeno so di avere.
E questo è il punto: non essere consapevoli di quello che si è, di quello che si ha, significa non poter aderire a se stessi, non poter avere un'immagine coerente e completa di noi.

Proprio come succede ai miei capi: sono tanti, potrebbero esserci miliardi di combinazioni legate da un fil rouge, così tante da creare un stile davvero mio.
Ma raramente, davvero raramente, ho la sensazione che si abbinino bene tra di loro, è come se mancasse una coerenza interna, una melodia di sottofondo, come un'orchestra dove ogni musicista fosse molto bravo con il suo strumento, ma non fosse bravo a suonare insieme agli altri.
Come se quelle cose belle che ho imparato a riconoscere, ancora andassero ognuna per conto proprio, come se mancasse ancora un elemento che possa tenerle insieme.

Sento che manca unità, anche se finalmente, inizio a vederle le mie ricchezze.

Ecco, questo vorrei che rappresentasse questo viaggio: un cammino fatto di silenzio e conoscenza, un'occasione per specchiarmi realmente nella me che sono e che voglio diventare, una possibilità per combinare tra loro colori e forme, fino a raggiungere la mia armonia perfetta.






venerdì 21 aprile 2017

Giorno settantaquattro: galleggiare.

Da un po' di anni a questa parte ho preso la sana e meravigliosa abitudine di andare in piscina.
Inizialmente è stata una vera e propria rivoluzione per una come me che nemmeno sapeva nuotare, nonostante la dimensione dell'acqua mi fosse sempre risultata piuttosto familiare e piacevole.
Passavo le mie estati immersa nel blu, a mollo senza poter fare altro che passeggiare, con la frustrazione di non sapere cosa si provasse a galleggiare in quell'acqua così trasparente.
Fino a quando mi sono detta che in fondo, se tutti riuscivano, ce l'avrei potuta fare anche io: del resto si trattava semplicemente di arrendersi a una legge fisica.

Così ho iniziato a frequentare una piscina.
Dapprima con un'amica, poi da sola.
Prima per un corso di fitness e poi per uno di nuoto.

Ogni volta che si inizia una nuova attività, soprattutto di quelle sportive, c'è l'entusiasmo dei primi tempi, poi, poco per volta, la pigrizia prova ad afferrarti di nuovo e tirarti giù verso di lei, tentandoti con il pensiero di un sonno ristoratore o di un film sul divano.

Ho sempre avuto una volontà piuttosto debole in questo genere di cose, ma devo ammettere che negli ultimi anni sono migliorata parecchio.
Fino a quando andare in vasca non è diventato un vero e proprio piacere, l'odore del cloro ha iniziato a risultarmi addirittura gradevole, il caldo umido un abbraccio sereno contro il gelo delle giornate invernali.

Ma riuscire a conciliare lavoro, passioni, vita sociale e impegni vari resta comunque un lavoro da prestigiatore: se sgarri un incastro, il castello crolla in un istante.

E quindi ci sono state volte, come questa, in cui per salvaguardare l'equilibrio difficilmente raggiunto, mi sono trovata davanti ad una scelta complicata: meglio correre in piscina come una pazza dopo il lavoro, faticare senza quasi aver potuto pranzare se non con un panino al volo durante il tragitto, per poi tornare -sempre di fretta- a scuola, fino alle sette di sera oppure sacrificare alcune preziosissime ore di sonno il venerdì mattina, alzarmi all'alba e riuscire così a seguire il corso per poi andare a scuola?
Dopo una lunga analisi dei pro e contro e un periodo di prova di entrambe le opzioni, mi decido a fare il grande passo: rinnovo l'abbonamento e scelgo il venerdì mattina.

Alzarmi, soprattutto l'unico giorno in cui potrei riposarmi e ancor di più quando il giorno prima è stato il più duro della settimana, richiede davvero uno sforzo sovrumano.
Ma il piacere fisico e mentale che provo una volta superata l'immensa pigrizia di scendere dal letto, aver raggiunto la piscina ed aver faticato i miei cinquanta minuti sul tapis roulant correndo e saltellando a ritmo di musica, è talmente intensa che conferma che è stata quella giusta.
L'attività fisica al mattino mi riempie di forza.
Non so se sia per via delle endorfine o perché effettivamente al mattino si è più attivi, ma ogni volta che esco dalla vasca mi sento piena di energia e di voglia di fare e l'effetto dura tutta la giornata.

L'insegnamento più grande che lo sport mi ha dato è che le cose belle costano fatica, ma che in fondo, regalano soddisfazioni molto più profonde di quelle che non richiedono sacrificio, perseveranza e volontà.
Oggi il mio pensiero positivo è affiorato da una vasca dal fondo blu, dove ora posso finalmente galleggiare libera dalle tensioni e dai timori immotivati, scaricare tensioni, faticare felice e sentirmi orgogliosa del mio aver scelto la strada più impegnativa, ma che so essere la migliore.





(foto dal web)







giovedì 20 aprile 2017

Giorno settantatré: l'ora d'aria.

"Hai terminato i tuoi giga".
Il tanto temuto messaggio arriva in una mattina di tre giorni fa, forse per punirmi di aver ascoltato qualche canzone di troppo nel tragitto verso scuola. 
Eccomi dunque dinnanzi alla scelta: correre a ricaricare subito o aspettare.
Dopo un attimo di smarrimento decido di percorrere la seconda strada, un po' per gioco, un po' per sfida.

Sì, sfida. 

Ho una dipendenza, come ce l'abbiamo più o meno tutti.

In realtà ne ho svariate, ma questa la trovo piuttosto fastidiosa e banale e da tempo mi interrogo su come fare per liberarmene. 
Ovviamente sto parlando del mio smartphone: oggetto ormai imprescindibile dal quale pare dipenda la nostra intera vita, amato e odiato compagno delle nostre giornata, scatola maledetta e ansiogena che ci obbliga a stare dietro ai ritmi frenetici imposti dalla velocità della tecnologia, aggeggio che ci rende schiavi del "tutto e subito", oggetto di culto che ci dà la sensazione di poter essere ovunque in un solo istante e che mentre ci nutre di questa illusione, ci ruba la possibilità di vivere il nostro qui ed ora, il nostro presente nella vita vera.

Non sto demonizzando la tecnologia, no!
Io amo il mio telefono, perché lì dentro c'è una parte grande di me: ci sono le foto che scatto nelle mie giornate, gli appunti che scrivo per non dimenticare, le mail e tutto il resto, ma so anche che di questo tutto io sono un po' vittima.

Ecco che il caso mi viene incontro lasciandomi senza connessione e invece di correre ai ripari, come al solito, scelgo di fare un esperimento: non ricordo più la mia vita senza smartphone e sono curiosa di recuperarla, seppure per poco tempo.

La prima sensazione è come quella di un tossico senza dose, ti chiedi come farai a sopravvivere per più di cinque minuti senza controllare la posta, rispondere ai messaggi, ascoltare un vocale, aggiornare status e postare idee. 
Tuttavia, dopo lo smarrimento iniziale ti rendi conto di quanto sia stranamente meravigliosa la sensazione di libertà ritrovata, il gusto di camminare con le mani libere guardandoti di nuovo intorno. 
Sono bastate poche ore per passare dalla  mancanza, al piacere. 

Non avere l'ansia costante di dover reagire subito ai mille stimoli che si susseguono (costantemente e a velocità impressionante) sul display luminoso, concedersi il lusso di stare nel momento e non nell'altrove, prendersi del tempo per guardare gli altri intorno, respirare senza la malata idea di poter essere ovunque in ogni istante. 
Se non avessi tentato l'esperimento, molto probabilmente, mi sarei persa: la bambina di cinese di tre anni circa, con la bella faccia da luna piena che parla, in cinese, con la mamma al telefono e poi in italiano con il papà seduto accanto a lei, i miei bambini che giocano un torneo in palestra e uno di loro che quando il maestro assegna il punto alla compagna avversaria, le stringe la mano sorridendo e dopo la abbraccia sportivamente per complimentarsi, la schiena ben disegnata di un avvenente sconosciuto che fa avanti e indietro nella corsia di mezzo della piscina mentre aspetto di scendere in vasca, gli occhi blu del mio collega che sono come l'estate, un paio di zoccoli di legno in vetrina, entrati ufficialmente nella mia lista di desideri, le pagine di un libro che non ho mai tempo di leggere.

Sì, perché il punto è proprio questo: il telefono ci ruba il tempo e il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo. 

Questa non è una pubblicità contro l'uso dello smartphone, non è una critica a qualcosa da cui per prima io dipendo, ma è una sana pausa di disintossicazione, la prova che vivere senza abusare di un mezzo che può essere davvero interessante, è possibile, che recuperare l'immersione nel momento che stiamo vivendo è meraviglioso, che essere multitasking non è un'abilità, come vogliono farci credere, ma una gabbia dalla quale sarebbe bello liberarsi.
Almeno ogni tanto.
Almeno qualche ora al giorno.
Detto questo: domani il mio piano tariffario mi restituirà la connessione. 
Ci sarebbe da chiedersi se in realtà mi stia piuttosto restituendo la schiavitù, perché la vera connessione è quella con la vita che ci circonda e la nostra capacità di stare in ciò che viviamo.
Ma io sono dipendente, non ho mai pensato, nemmeno per un attimo di sbarazzarmi del mio smartphone e tornare a un vecchio nokia. 
Mi chiedo quanto la mia volontà, in questi casi piuttosto debole, riuscirà a mantenere fede a una promessa che mi sono fatta in questi giorni.

Intanto ringrazio il caso, ringrazio le troppe canzoni ascoltate per avermi fatto provare cose che non provavo da tempo, per avermi regalato un'inaspettata ora d'aria dalla prigionia del mio telefono.








mercoledì 19 aprile 2017

Giorno settantadue: tempo di silenzi.

Oggi è davvero difficile poter trovare un motivo di felicità e non perché non ce ne siano stati, ma perché il dolore forte delle perdite occupa tutto il mio cuore, mi riempie in questa notte di freddo ritrovato di quasi Maggio e non lascia spazio per altro.

Sentirsi piccoli, infinitamente fragili, spersi dinnanzi alla morte.

Ci ha lasciati il papà di una cara amica, un uomo che ho avuto modo di conoscere solo per il tempo di una breve ma intensa vacanza un paio di estati fa.
Un uomo che forse, però, conosco attraverso il sorriso di sua figlia, lo stesso che aveva lui.

Di lui ricordo la gentilezza e l'infinita ospitalità, le brioche calde al risveglio in quella splendida colazione con vista sulla campagna siciliana, la sua risata e lo sguardo acceso di un uomo che credeva ancora in qualcosa.

Non voglio sprecare altre parole, sarebbero superflui tentativi di spiegare la sofferenza che torna, sempre uguale e sempre diverso, ogni volta che qualcuno ci lascia.

Lo conoscevo poco, è vero, ma la forza che ho visto in sua figlia, mi racconta tanto di quello che era.
Oggi vorrei solo ringraziarlo, chissà, forse illudendomi che possa sentirmi, per avermi regalato un'Amica meravigliosa, la possibilità di vedere la sua terra che tanto amo attraverso gli occhi di chi quella terra la conosce bene perché la vive ogni giorno, perché ci è nato e cresciuto.
Vorrei ringraziarlo per avermi aperto le porte di casa sua, pur senza conoscermi, per quella festa in giardino di luci e risate, donne che cadono danzando, cantanti improvvisati.
Vorrei ringraziarlo per quei giorni di sale e vento, per quell'arcobaleno incredibile sulle colline mentre tornavo verso l'aeroporto, per quel viaggio che mi ha riportata al mondo dopo un periodo particolarmente duro.
E vorrei portare con me il ricordo di quell'orgoglio, di quel coraggio che inspiegabilmente mi pare aver intuito nel suo sguardo.
Il coraggio di chi crede in un ideale e lo porta avanti, nonostante tutto.

Adesso è tempo di silenzio e di accogliere l'enorme messaggio che ogni cosa porta con sé: dedicare il nostro tempo alle persone che amiamo, non sprecarlo con chi non merita, usare bene il nostro presente, abbracciare di più, ringraziare di più, vivere intensamente ogni istante nel suo momento, cogliere la perfezione di ogni amore, anche di quello più imperfetto, vivere per essere noi stessi, lottare per diventare ciò che siamo, credere sempre in qualcosa di grande, anche quando questo significa faticare.





martedì 18 aprile 2017

Giorno settantuno: la bicicletta lilla.

Ho sempre avuto una sorta di adorazione per la mia bicicletta, a partire da quel giorno del mio tredicesimo compleanno in cui mi fu regalata.

La mia bici è lilla e bianca, ha un bellissimo cestino di vimini e mi ha accompagnata un po' ovunque.

Quando ero piccola passavamo insieme le estati in cortile a fare sempre lo stesso giro intorno al condominio.
Eravamo cinque bambini, quando ancora si usava passare i pomeriggi insieme sotto casa giocando a pallone o a nascondino.
Le nostre bici avevano tutte un soprannome e ci piaceva immaginarle come cavalli velocissimi sui quali fare lunghi viaggi nella canicola di Luglio.
Inventavamo storie, le interpretavamo, le vivevamo.
Senza saperlo eravamo scrittori, registi e attori.
Non ricordo noia, ma solo un'infinita fantasia con cui riempivamo le giornate.
C'erano poi i periodi tematici: il mese in cui ci eravamo invaghite del punto croce, quello in cui avevamo messo in piedi una specie di storia a puntate dedicata ad una saga famigliare, l'Agosto dei sedici palloni persi dietro al muro di cinta, l'anno della pallavolo e quello dell'Inglese a fascicoli.
E le nostre bici erano sempre con noi.

Fino al giorno in cui quel Settembre di non so quanti anni fa, decisi di portarmela in città, perché tanto, ormai, le estati le passavo altrove.

La mia bici è rimasta per anni in cantina, tristemente rassegnata all'indifferenza che ho ingiustamente nutrito nei suoi confronti per troppo tempo, fino a quando un giorno, dopo vari tentativi morti sul nascere, mi sono decisa ad andare all'università in bici.
Certo, usare la bici in città è molto diverso, ma è bastato davvero poco a lasciar rifiorire quella stessa sensazione di libertà che sentivo sulle due ruote anni addietro.
Ci sono mille motivi per cui la bici è il miglior modo per spostarsi in una città piana come la mia: se arrivi, arrivi prima che in macchina, fai movimento e intanto hai tempo di ascoltare la tua musica preferita, guardarti intorno, fare piacevoli incontri sulle piste ciclabili.
Vero, ci sono altrettanti motivi per cui usare la bici in città è davvero insopportabile e pericoloso, ma visto che le due ruote, insieme alle mie gambe, sono tra i miei mezzi di spostamento preferito, non posso far altro che concentrarmi su quello che di bello può darmi muovermi in questo modo.

Per un periodo andavo in bici ovunque: i chilometri erano almeno venti ogni giorno, stavo meglio ad ogni pedalata, non so esattamente se per via di quella storia che fare movimento libera endorfine o semplicemente perché i ciclisti che incrociavo erano mediamente piuttosto interessanti, ma arrivano a casa stremata e felice, con una voglia di fare pari a pochi altri periodi della mia vita.

E così, oggi, dopo la consueta pausa invernale - brutta abitudine che vorrei aver la forza di cancellare, prima o poi!- ecco che finalmente rispolvero la mia bici.
Le prime pedalate sanno sempre di bellezza ritrovata e libertà.
Mentre mi lascio andare senza pedalare sulla discesa verso il fiume, il vento in faccia mi ricorda quanto sia meraviglioso muoversi su due ruote.
Percorro un tratto piuttosto breve, ma sufficiente a farmi tornare il sorriso e la certezza che quelle maledette due rampe della cantina con il "dolce" peso della mia bici sulle braccia, resteranno solo un piccolo dettaglio fastidioso che saprò ignorare ancora.

La mia bici deve portarmi in molti altri posti, voglio la sua compagnia per lungo tempo ancora e forse anche lei inizia a desiderare una compagna di giochi, proprio come quelle che aveva negli interminabili e lontani pomeriggi di tanti anni fa, quando ogni cosa era ancora immersa nella perfezione delle cose immaginate.






domenica 16 aprile 2017

Giorno settanta: le cascine ai margini della città.

Pasqua: i primi caldi, venticinque gradi di perfezione assoluta, guidare con il finestrino abbassato e la mano fuori.
Pasqua: la torta Pasqualina di mamma, l'insalata russa fatta in casa, le uova di cioccolato e il Dolcetto. Il pranzo infinito fino all'ora di merenda, il caffè che non serve a nulla, la confusione della famiglia riunita intorno al tavolo.
La voglia di una camminata per smaltire.
Il cielo di smalto con qualche lontano straccio bianco sulla punta delle montagne, i solchi curvilinei nel terreno bruno, i campi freschi di verde- piante- nuove.
Camminare nel vento sopra la tangenziale, allungare il passo cantando canzoni anni ottanta, parlare in un'altra lingua con tua nipote.
Arrivare sul viale alberato con le le punte degli alti pioppi che danzano nell'aria, le foglie argentate come piume leggere di uccelli esotici, l'occhio che segue la prospettiva fino alla residenza reale in fondo alla strada.
Nei quasi trenta gradi di questa Pasqua soleggiata il solo bar aperto lungo il corso straripa di uomini in maniche di camicia e caviglie nude ai tavolini, anziani che fumano ridendo, scene da un post pranzo di festa consumato in qualche ristorante dei dintorni.
Il prato tagliato all'inglese, gruppi di famiglie con bambini che fanno capriole o parlano distesi sull'erba come in qualche famoso quadro impressionista.
Le antiche cascine sparse lungo il viale, come perle scappate da un filo di seta.
Si srotolano una in fila all'altra, nella loro bellezza delle cose perdute.
Ancora riportano in alto, sui loro muri, piccole insegne o scritte in caratteri bianchi "alimentari", "barbiere" "farmacia".
Oggi vuote, abitate solo da una vita immaginata, eppure anni e anni fa, qui c'erano i cavalli, i contadini, le donne nelle corti interne, le galline, i bambini sporchi di terra.
Ho sempre subito il fascino di questi spazi così rurali ai margini della città, bello pensare a come poteva esser vivere qui, anche fino a non molti anni fa, quando prima della vera e propria urbanizzazione, le cascine erano ancora popolate.
Le vite immaginate, le vite degli altri, le cose che non sono più.
La bellezza del tempo perduto, le suggestioni che popolano i miei sogni notturni sempre nate nel mio girovagare quotidiano con gli occhi spalancati sulla bellezza, la voglia di fotografare, scrivere, scarabocchiare qualcosa per salvare attimi, visioni, poesia.
Pasqua di otto chilometri pensando a quel che c'è, soffiando via quel che ho perso, riprendendomi il mio entusiasmo, lasciando ai margini del viale, vicino alle cascine, la polvere delle cose andate.




venerdì 14 aprile 2017

Giorno sessantanove: un' amicizia senza tempo.

In una Torino semi-deserta, in questo venerdì sera prefestivo, cammino come mio solito in anticipo, vero l' incontro con un carissimo amico che non vedo da tempo.
Le amicizie di lunga data sono uno dei tesori più preziosi, di quelli da custodire e proteggere dedicando loro dedizione a amore.
La nostra è nata sui banchi di scuola del liceo: una passione comune, quella per lo Spagnolo, una natura simile, quella di chi crede ancora nelle emozioni come radice dell'esistenza.
Lui è stato per me più di un semplice amico.
Prima di questo uno specchio nel quale vedermi riflessa, un sostenitore del mio estremismo sentimentale, una speranza nei momenti più neri.
Lui mi ha insegnato ad amare quello che sono oggi, quella che sono diventata, mi ha ispirata, è stato per me un maestro, prima che un amico, un modello, colui che ha gettato un seme nella mia anima che è rimasto assopito per anni, prima che iniziassi a vedere esplodere i primi germogli di quella che poi è diventata non solo una passione, ma uno dei motivi di gioia della mia vita: il mio lavoro.
Lui è stato il mio insegnante, prima che un amico.
Attraverso lunghissime lettere, prima, telefonate e gelati pomeridiani poi, ci siamo conosciuti anche fuori dall'aula, abbiamo condiviso film, ci siamo scambiati libri, abbiamo chiacchierato di viaggi, spettacoli teatrali, amore e delusioni.
Ed ecco che il rapporto di naturale e sana distanza che esiste tra maestro e alunno, piano piano si è andato dissolvendo per lasciare spazio ad un legame tra pari.
Credo fermamente nel valore dell'amicizia tra uomo e donna, così come in quello dell'amicizia tra persone di età diverse.
I quasi trent'anni che ci separano non sono mai stati un problema: al contrario, poter condividere pezzi di noi con chi forse ha già sperimentato, vissuto, assaggiato quel tuo stesso dolore o quello stesso entusiasmo scottante è meraviglioso, così come contribuire, nella nostra diversità, all'esperienza dell'altro, secondo il nostro punto di vista evidentemente differente.
Tra un paio di birre passa in fretta la serata.
Ceniamo su un tavolino all'aperto in uno dei vicoli del centro, ci confrontiamo, sperimentiamo lo stesso sgomento dinnanzi a dinamiche di vita che non comprendiamo, ci scambiamo consigli e ridiamo di gusto.
La notte si riempie poco a poco di persone, tra i tavoli dei bar e le panchine delle piazzette nascoste aleggia un'aria di quasi estate e la sensazione piacevole dell'essere in vacanza.
Dopo un abbraccio lungo e una promessa sulle scale delle metropolitana, rincaso leggera nella consapevolezza di essere una donna fortunata, molto più di quanto spesso credo.





giovedì 13 aprile 2017

Giorno sessantotto: il primo giorno di vacanza.

Il primo giorno di vacanze di Pasqua ha il sapore di un caffè da due ore con un'amica, delle prime fragole della stagione e i colori di una passeggiata sul lungo fiume.
Ha l'odore del bucato fresco steso al sole- stavolta profumerà come quello di tutti gli altri!-
Il primo giorno di vacanza sa di pulito e di nuovi inizi.
Mi dedico un po' al cambio dell'armadio: divido, piego, sistemo vestiti.
Archivio cose inutili e pesantezze, recupero la leggerezza dei colori tenui.
Il primo giorno di vacanza lo passo coi piedi scalzi, finalmente, tra il tappeto e il pavimento ancora un po' fresco. La finestra lasciata aperta da dove i gatti fanno avanti e indietro rincorrendosi o rilassandosi al sole sul balconcino.
Il primo giorno di vacanze è senza sveglie, senza orologi, senza fretta.
Tra una cosa e l'altra riesco a anche a leggere qualche pagina, ad ascoltare un po' di musica classica mentre mi preparo una macedonia, a pensare a come organizzare i prossimi giorni.
Chi non insegna non potrà crederci, ma un docente arriva a questo punto dell'anno privo di energie, vuoto come un melone senza polpa, stanco come una pera caduta dall'albero.
Questa pausa di qualche giorno serve a ricaricarsi prima del gran finale, a raccogliere le forze, a concentrarsi sui risultati raggiunti e su quello che ancora c'è da fare.
È già il momento in cui si fa il punto della situazione e in un attimo ti rendi conto di quanto l'anno scolastico passai velocemente.
Il primo giorno di vacanza ha il colore del cielo di primavera, dei panni disordinati stesi nei cortili interni, dell'arancione delle magliette degli operai che da giorni asfaltano la strada sotto casa.
Se potessi esprimere un desiderio, oggi, chiederei di dimenticare e di aver la forza per andare oltre.
Ogni fine è un nuovo inizio, ma ogni fine rimane anche sempre e solo una fine.
Così anche oggi, nel mio primo giorno di vacanza, finisce una stagione e ne inizia un'altra che vorrei fosse di stazioni, camminate, abbracci e occhi nuovi, di isole e di libri, di poesie e di spazi aperti.
Vado punto e a capo, inciampando tra le righe.



mercoledì 12 aprile 2017

Giorno sessantasette: Le prime scarpe aperte.

L'amore prima dei social era tutt'altra cosa.
Soprattutto, prima dello smartphone.
E anche di Facebook.

Dimenticare era un esercizio che richiedeva volontà, certo, ma soprattutto un po' di tempo.
Bastava questo e in breve si era pronti, non dico per cancellare quel che era stato, che poi nemmeno è giusto, ma almeno per voltare pagina ed eventualmente iniziare un capitolo nuovo.

Oggi, metter la parola fine ad una storia è diventato una replica degli sforzi di Sisifo: quando credi di aver faticato abbastanza per spingere il tuo masso fino in cima alla montagna, ecco apparire una foto sospetta, un aggiornamento di stato ambiguo, un online di troppo e il masso, diventato sempre più pesante per l'energia già impiegata nella salita, torna a rotolare giù dal pendio. E con lui la speranza di portare a compimento il tuo lavoro.

Normalmente scelgo di cancellare dal mio mondo virtuale ogni traccia di ex, in quanto non facente più parte della mia vita reale.
Via!
Pulisco, archivio -magari salvo anche qualcosa- ma poi elimino per evitare di ricadere nella trappola masochistica dell'infinito non concluso.
Niente come qualcosa di ancora aperto, non definito, senza punti a capo, può far male quando si ha ancora in testa una persona.
Questa volta, però, non ce l'avevo ancora fatta.

Così oggi decido di farmi un regalo, forse il più bel regalo degli ultimi dieci mesi: cancellare un numero dalla mia rubrica.
Un numero che è un nome.
Un nome che è una Persona.
Un nome che per troppo tempo è apparso accanto all'icona tonda con dentro la cornetta, in alto sul display del mio telefono.
Un'icona che deve smettere di far capolino su questo schermo.
Non basterà a smettere di pensare a lui, non sono così ingenua da illudermi di questo, ma almeno smetterò di provare la tentazione di scrivergli, di rispondere o di guardare quando è connesso, come tutti, si sa, facciamo.
Anche quelli che dicono di non farlo.

Mentre ragiono sulla questione, me ne vado a spasso con il primo paio di scarpe (quasi) aperte dell'anno e per la prima volta, senza calze.
Adoro stare scalza: la prima cosa che faccio appena entro in casa è liberare i miei piedi.
Amo sentire il pavimento sotto di me, la base concreta a cui ancorarmi, la terra che mi salva riportandomi giù quando la mia tendenza a galleggiare tra le nuvole riaffiora pericolosamente.
I portici sono pieni di gente, alcuni di fretta, altri più rilassati dediti alle chiacchiere o a un gelato da passeggio.

Oggi è il mio primo giorno di vacanza e l'aria che respiro me lo ricorda.
Tutto pare suggerirmi che anche se ho una mole immensa di cose da fare, non accadrà nulla di grave se per questo pomeriggio fingo che non sia così e mi concedo un po' di tempo per me.

Oggi è il primo giorno di vacanza e anche il primo giorno di vacanza da qualcosa che non voglio più, da qualcosa che mi ha risucchiato troppe energie e che è giunto il momento di archiviare.
Oggi libero la mia testa da un pensiero che ha occupato troppo spazio, così come libero i miei piedi dal fastidio delle calze.
Oggi smetto di costringermi dentro a scarpe troppo strette, in attesa di tornare a Sentire veramente, posando i piedi scalzi su qualcosa di fresco e nuovo.









martedì 11 aprile 2017

Giorno sessantasei: la mano fuori dal finestrino.

Ogni anno la stessa storia: arriva il caldo inatteso, senza preavviso.

Succede sempre così: al mattino giacca, foulard al collo e anfibi.
Poi esco da scuola verso l'una e mi sento fuori luogo come un'idiota impellicciata su una spiaggia rovente a ferragosto.
È arrivato il tanto temuto momento del "non esistono più le mezze stagioni", quel drammatico periodo dell'anno in cui capisci che non hai mai le cose giuste da metterti, che ogni paio di pantaloni, ogni giacca, non staranno mai bene con tutto il resto del tuo guardaroba, che per quante tshirt, camicie o gonne tu abbia, mai nessuna si potrà combinare in maniera sensata con le tue scarpe.
È arrivato quel momento in cui tutto viene messo in discussione: quest'anno, pensavi mentre ancora andavi in giro felicemente imbacuccata nella tua sciarpa di lana extra large, non mi frega: ho finalmente le scarpe giuste da mettere nella stagione di mezzo, ho comprato in saldo quell'impermeabile leggero che ad Aprile sarà perfetto e via dicendo.
Continui soddisfatta nei tuoi deliri mentali, mentre sai benissimo che invece, alla fine, nemmeno quest'Aprile sarà il momento adatto per sentirti finalmente a posto.
No, non sarà l'occasione giusta per smettere di andare in giro come una goffa adolescente scappata di casa in canotta e stivali di pelo.
No, perché di nuovo, ancora e forse per sempre, un giorno sarà inverno pieno con cieli grigi e piogge tropicali ad inzupparti quando avrai deciso, sbagliando, ovviamente, di indossare le prime scarpe aperte della stagione.
Ma il giorno dopo, sarà estate e guarda caso, quel giorno, tu avevi riesumato dall'armadio quei jeans pesanti e gli stivali di pelle, visto il tempaccio del giorno prima.
E sarà così per un bel po' di settimane, le settimane dell'imbarazzo, quelle in cui pensi che se nemmeno a trentasei anni sai ancora come devi vestirti, allora, forse non lo imparerai mai.

Ma in tutta questa inadeguatezza, in tutto questo sentirsi incapaci di fare la scelta migliore, succede sempre una piccola magia.

Di solito in una domenica di sole o in una delle prime sere davvero tiepide dell'anno: entri in macchina e senti forte il desiderio di far entrare un po' di aria da fuori.
E mentre guidi disteso o ti godi il viaggio, sul sedile del passeggero, riaffiora quel naturalissimo gesto del mettere la mano fuori dal finestrino e di lasciarla andare all'aria profumata di caldo.
È un gesto che sa di libertà infantile, di quelle cose che non andrebbero fatte, ma che in fondo non riesci proprio ad evitare.
Te ne vai in giro con la mano a penzoloni, ogni tanto la ammiri nello specchietto e in un istante ritorni indietro, mentre fuori tutto sembra restare uguale a quelle quasi estati di qualche anno fa.

Invece di cose ne sono cambiate tante.
Ma poco importa.
Adesso ti godi il sapore delle notti lunghe che tornano, il profumo dell'erba appena tagliata che entra dal finestrino, la mano che si lascia cullare dalla velocità.
Il gusto delle cose che ancora non sono.
Così, nella solita inadeguatezza di un Aprile quasi Agosto.


https://www.youtube.com/watch?v=ELv1ABkLdxc

(foto dal web)


lunedì 10 aprile 2017

Giorno sessantacinque: tra vino e colline.

Tempo fa, tra le mie colline, si usava "cantar le uova".
Si tratta di un'antica tradizione del periodo di Pasqua diffusa in molte zone d'Italia.
Si andava di porta in porta e accompagnati dal suono della fisarmonica o di qualche strumento improvvisato, si dedicavano canzoni alla padrona di casa o a i suoi abitanti per ottenere la loro benevolenza e soprattutto qualche uovo da mangiare insieme agli amici durante il lunedì di Pasqua.
Mi hanno sempre incuriosita le tradizioni locali, a tal punto da farmi venir voglia, per qualche mese, di cambiare facoltà e passare da lingue ad antropologia.
Poi, purtroppo - o per fortuna- non l'ho fatto, ma mi sono limitata ad approfondire gli usi e i costumi dei popoli più disparati del mondo attraverso qualche sporadica lettura.

Forse la mia costante fame di viaggi è anche legata a quest'aspetto di me, alla curiosità sul come hanno sempre vissuto le persone nate e cresciute in un determinato luogo.
C'è sempre un legame, un'influenza sul nostro modo di essere e il luogo dove siamo nati, non per niente si parla di "Madre terra": la terra ci genera, ci dà radici e vita e come ogni madre ci lega a lei, a lei somigliamo anche in esilio dalla parte opposta del mondo.

Sabato sera, dunque, accolgo il richiamo di una delle centinaia di rivisitazioni in chiave moderna di questa tradizione e me ne vado a "cantar le uova" insieme ad amici, in mezzo alle colline.
Come in ogni sagra di paese la piazza è già piena del vociare dei suoi abitanti che passeggiano tra i vari stand, qualcuno già brillo dal tardo pomeriggio.
Si salutano tra di loro con la fierezza tipica di chi ha qualcosa di cui va orgoglioso da mostrare al"forestiero".
Piano piano le strade si riempiono di gente venuta da fuori.
Man mano che passano le ore i profumi della carne arrostita si mischiano con quelli della pasta fritta e del lardo, il vino rosso riempie il bicchiere appeso al collo della persone in fila disordinata, si inizia a far fatica a muoversi.
Sulle facce si accende il rosso di qualche bicchiere di troppo, le canzoni che iniziano a stonare confermano che il nostro vino è forte abbastanza anche per chi vi è avvezzo. Brillano anche le risate, i gruppi di giovani che si accalcano agli angoli della piazza, ognuno parte di una sorta di collettiva riscoperta di qualcosa di antico che continua ad esser sempre attuale, ognuno preso da una specie di allegria condivisa. Si parla tra sconosciuti, vecchi e giovani comunicano senza la diffidenza tipica che separa la generazioni, c'è aria di festa e d'estate che si avvicina.
Amo le manifestazioni popolari, mi piace l'idea di far parte di qualcosa di più grande.
Provo la stessa sensazione durante le manifestazioni di protesta che riempiono le piazze o durante i concerti.
Si tratta di una sorta di nostalgia di qualcosa di passato che ancora sa unire la gente, qualcosa che va al di là della realtà.
Per qualche ora ho come l'illusione che il morbo dell'individualismo estremo che ormai dilaga nelle nostre vite, si vada dissolvendo nella comune appartenenza a un sentimento che unisce.
Così tra pasta fatta a mano e bicchieri pieni, canzoni in dialetto e facce allegre, brindisi improvvisati con facce mai viste prima e risate incontenibili, si srotola tra il verde e il blu di una notte tiepida, il mio sabato sera.





venerdì 7 aprile 2017

Giorno sessantaquattro: un bottino felice.

Oggi è venerdì e già questo basterebbe per essere felici.
Non esiste un giorno migliore, l'ho già detto e lo ripeto.

Di venerdì ogni cosa diventa più lieve.

Oggi, poi, ho anche altre ragioni per sorridere.
Esco da scuola: il cielo è azzurro pieno, come colorato da una mano di pastelli a cera.
Invece di tornarmene a casa, allora, decido di prolungare la giornata e di godermi il primo pomeriggio di luce infinita da quando è cambiata l'ora.

Cammino sorridente, senza alcuna fretta, verso il centro.
La sensazione di libertà che provo nel passeggiare senza una vera e propria meta è incredibile.
Tutto il mio corpo, i miei occhi, tutta me stessa, sono immersi nell'esercizio di contemplazione della vita intorno a me: un passante sorride al cellulare leggendo un messaggio - lo invidio- , una donna appoggiata al muretto di una piazza sfoglia un libro, tre giovani amici seduti a bere un bicchiere di vino bianco, una signora con un impermeabile leggero e un cagnolino bianco in attesa del semaforo rosso.

Cammino leggera, nella pienezza della sola compagnia di me stessa.

Ogni incontro è una piccola scintilla d'ispirazione che scatena miliardi di ipotesi, un incrociarsi casuale di vite possibili e di storie da inventare.
Mi concedo un cono caramello e nocciola, continuo la mia esplorazione della città che mi sembra di non conoscere mai abbastanza.
Musicisti di strada, botteghe artigianali, i primi piedi nudi nei sandali (con annessi corpi nordici).
Molti turisti con la mappa della città in mano si guardano intorno sorpresi da tanta inattesa bellezza.
Una signora mi ferma per chiedere informazioni.
Ormai sazia di tanta vita mi infilo in una libreria per riprender fiato, sperando di trovare nel silenzioso girovagare tra gli scaffali, qualche volume che catturi la mia attenzione: ho un meraviglioso regalo ancora da spendere e non vedo l'ora di trasformare questa piccola carta di plastica rossa e bianca in libri da odorare, sfogliare, leggere.
La tappa è fruttuosa: esco con ben quattro volumi in borsa e tanta voglia di andarmene a casa e iniziare subito a leggerli.
Se non avessi dei gatti che mi aspettano per riempirgli la ciotola, probabilmente mi fermerei su qualche panchina verde, approfittando della luce che ancora resta per sbirciare tra le pagine.
Ma si è fatto tardi.

Scendo tra le viscere della terra, nella mia amata metropolitana per far rientro.
Nel vagone nessuno si accorge che è venerdì, forse.
Tutti sono intenti a scorrere le pagine con il dito sullo schermo dello smartphone.

Tutti tranne una bambina che guarda fuori dal finestrino e una bambina, che ormai, pare sia grande, che stringe nelle sua borsa di tela il bottino di un venerdì pomeriggio felice.








giovedì 6 aprile 2017

Giorno sessantatré: la luce sulle case degli altri

Se c'è una cosa che adoro quando cammino in una città, è andarmene con il naso all'insù osservando le case.

Provo un profondo piacere estetico nello sbirciare tre le finestre accese di notte nel tentativo di entrare nella vita degli sconosciuti, spiandone ingenuamente la vita dietro le tende. 
Amo la sensazione tattile (immaginata con gli occhi) del cemento, del mattone, dei muri ruvidi e di quelli più lisci, i bovindi di Torino, le finestre enormi dalle quali entra tutta la luce delle strade, le grandi terrazze -sogno che mi porto dietro da quando ero piccola-e i minuscoli balconi colorati dai gerani. 
E insieme alle finestre e alle case con le loro storie, con le persone che ci nuotano dentro come piccoli pesci rossi in un acquario, mi piace la luce che si posa su di loro.

La luce che non è mai la stessa in base all'ora e alla stagione.
La luce sa esaltare o affondare un dettaglio, un segreto, una forma.

Spesso le case colpite da un fascio di luce come sotto a un riflettore su un palco di teatro, mi appaiono come visioni all'uscita della metropolitana, appena girato un angolo, al fondo di una strada.
E allora mi fermo qualche istante sorpresa, spaesata dinnanzi a tanta bellezza, stupita dall'inatteso.

La luce taglia, accarezza, ammorbidisce.
A volte sottolinea, esalta, inquadra: ecco un'anziana alla finestra intenta a guardare la vita che le scorre sotto gli occhi, un gatto con gli occhi socchiusi che respira il sole, la luce li inserisce in una geometria perfetta, ne disegna una cornice, fa di quella visione casuale un fotogramma.

Conservo centinaia di foto di finestre e di porte, sono per me una sorta di ossessione che colleziono ad ogni mio viaggio lontano o quotidiano nella mia città.

Ci sono le finestre incastonate tra gli azulejos di Lisbona, le nuvole che passano sui vetri di Madrid, l'arancio scostato al tramonto delle case di Roma, il vecchio alla finestra a Trastevere, i panni stesi alle finestre minuscole dalle imposte verdi tra i vicoli di Genova, nella luce biancastra di un sabato di pioggia.

Tante finestre come occhi sul mondo.
Tante fessure che raccontano qualcosa parlandoci da dentro a fuori. 

Tante luci diverse che invece entrano nella vita degli altri, da fuori vanno verso l'interno e lo fanno accarezzando, dipingendo, disegnando dettagli o nascondendo volti tra le ombre.

Le finestre, 
le case, 
la luce.

Il dentro e il fuori.

Un continuo dialogo immaginario di bellezza e dettagli.
La bellezza senza filtri in cui siamo immersi, da cui siamo assuefatti.
La bellezza che dobbiamo tornare a vedere.

















mercoledì 5 aprile 2017

Giorno sessantadue: una cena greca.

Non so è colpa di un paio di bicchieri di Retsina o il piumone sotto cui mi sono accomodata con il pc sulle gambe per scrivere, ma fa caldo.
Mi alzo, apro un po' la finestra e dalle imposte socchiuse entra un lieve respiro di notte tiepida.

Oggi è piovuto per quasi tutto il giorno.
La sensazione della pioggia in primavera è diversa da quella della pioggia nelle altre stagioni.
L'acqua di Aprile è vita liquida: lava, scorre e poi esplode nel verde tutto intorno.

Oggi è stata una giornata importante: una delle mie più care amiche ha superato una prova fondamentale, una di quelle prove che ti cambiano la vita.
Quando si desidera fortemente qualcosa e ci si impegna con tutte le proprie forze per raggiungerlo, arriva, ad un certo punto, il momento di mettersi davvero in gioco e solo allora si capisce davvero quanto teniamo a quel desiderio.
Ecco, la mia Amica ci teneva tanto, così tanto che oggi le cose sono andate benissimo - come già sapevo dentro di me- e la felicità di averne avuto conferma è stata enorme.

La gioia ha senso solo se condivisa.

E allora ce ne siamo andate a festeggiare al ristorante greco: buon cibo, posto semplice e vino bianco.
I momenti passati con le persone che ci conoscono bene sanno sempre di autentica bellezza e perfezione.
Solo con chi ci ama davvero - e con chi a nostra volta amiamo in maniera incondizionata- ci permettiamo il lusso di essere davvero noi stessi.
Si ride, si scherza facendo ipotesi sul futuro, si progettano viaggi insieme.
Serve davvero poco a farmi felice, bastano due pareti blu, l'ipotesi di una vacanza, le persone giuste.

A volte mi chiedo come sia possibile non accorgersi di quanto la felicità sia davvero fatta di cose semplici.
Tornando verso casa leggeri, respiro aria di serate future, di estate e concerti all'aperto, di qualcosa di bello che sta per arrivare.
Oggi  non ho bisogno di altro per sentirmi bene.

E ripenso a me, a quanto lentamente stia tornando, a mia volta, a coltivare desideri nuovi e a muovermi verso di loro, poco per volta.

Ci sono attimi nella vita, in cui sembra che nulla abbia senso.

Eppure io credo che il senso, se siamo davvero noi a muovere le pedine, a fare le nostre scelte, lo troveremo andando avanti.

Così continuo ad andare verso i miei sogni, a volte un po' disorientata, a volte più sicura, ma sempre certa che solo fidandomi davvero delle mie intuizioni, potrò trovare la direzione giusta.

Lentamente, poco per volta.

In costante e continuo ricostruirsi.














martedì 4 aprile 2017

Giorno sessantuno: ode al letto.

Ode al letto.
Così incomincia,
questa "poesia" senza capo né coda.
Un'ode semplice,
per la mia imbarcazione senza remi
silenziosamente ancorata nella mia camera da letto.
Nave ferma, durante il giorno,
lieve vascello di notte,
in viaggio verso i sogni più imprevisti.
Nella sua dolce conca
riposa il corpo stanco,
tra i colori del copripiumone- impossibili abiti in cui avvolgermi quando la solitudine fa venir freddo-
gatti acciambellati tra le gambe (che non puoi più muovere per non disturbarli),
libri lasciati aperti,
caduti,
scivolati dalle mani,
chissà a quale pagina,
quando ti addormenti distrutto la sera,
con l'amara illusione di riuscire a leggere più di cinque righe.
Qui sono nate e finite storie infinite,
hanno pascolato greggi di visioni,
le mie gambe hanno nuotato in acque sconosciute,
ci sono stati risvegli inattesi e abbracci salati,
occhi spalancati su soffitti estivi,
piedi scalzi a cercare altri piedi.

Oggi inizio e finisco così, un po' per gioco, un po' seriamente.
A metà tra il serio e il faceto, un po' per trovare una soluzione rapida al sonno che mi sta richiamando a sé come un canto di sirene, un po' perché cambiare mi diverte.
Quando la giornata è di solo lavoro, mal di testa, stanchezza dentro e fuori, quando la primavera ti risucchia tutte le forze come succede ogni anno al cambio di stagione, quando le ore sono macigni e tra occhi indesiderati che tornano a trovarti e mancanze così concrete che quasi le puoi toccare, il solo pensiero che può salvarmi è quello del mio letto.
Il letto: è un pensiero felice in certi giorni, il più felice che ci possa essere!
Il letto è per me il luogo di culto della casa, lo spazio sacro dove ogni cosa è possibile, il tempio segreto di sogni e parole, silenzioso testimone sospeso nell'ombra del sonno.

Ode al letto, non una parola di più, in questo strano post assonnato.
Il letto mi attende nel suo abbraccio spalancato.

(Perdonatemi il gioco di sperimentazione).







lunedì 3 aprile 2017

Giorno sessanta: una tavolozza primaverile.

Il mio motivo di felicità di oggi è piccolo, impercettibile e delicato.
Si nasconde tra i fiori inattesi che da un giorno all'altro hanno ripreso a sbocciare per le strade della mia città, con la dolce forza che ogni vita nuova porta con sé.

Se sapessi dipingere mi piacerebbe esercitarmi, così come facevano gli impressionisti, a ritrarre lo stesso luogo durante diverse stagioni.
Perché uno stesso posto, investito da colori e tonalità diverse non è mai uguale a se stesso.

Ogni anno non smette di stupirmi lo spettacolo della luce che cambia le forme della realtà accarezzando i marciapiedi, smussando gli angoli dei monumenti, srotolando ombre morbide o nette sui muri dei palazzi.
La mia tavolozza è quella che esplode tra le siepi dei giardini, sulle chiome dei bianchi ciliegi, ai bordi dell'acqua verdognola.

Amo il rosa che declina in mille tonalità dal lieve e polveroso cipria al fucsia acceso, il lilla dei glicini sui muri scostati, il verde pulsante dell'erba che si accende dopo le piogge che durano giorni e giorni.
Nuvole bianche danzano in gruppi trasportate dal vento, l'acqua del fiume si veste del riflesso colorato della vegetazione che lo circonda.

Ogni cosa sembra vestirsi a festa.

Ed in tutto questo concerto brulicante di vita, mi perdo, quasi stordita dalla perfezione della natura, innamorata nella magia di un quadro che cambia continuamente forma e sfumature ad ogni pagina del calendario che giriamo in avanti.

Così capita che in un giorno qualsiasi, mentre vai al lavoro o passeggi in compagnia dei tuoi pensieri, ti rendi conto di quanta bellezza ci circonda.
Una bellezza umile e profonda, un mistero che dorme nella magia delle cose naturali e che sembra chiamarti, supplicando di non perderti nemmeno un istante di quello spettacolo incessante.

Niente di più di questo, niente di più.











domenica 2 aprile 2017

Giorno cinquantanove: le pulizie di primavera.

Ultimamente, sul web e non solo, si è diffusa una filosofia piuttosto condivisibile circa l'importanza del liberarsi di ciò che non usiamo, del fare pulizia, di riprenderci il nostro spazio.
Non so bene se si tratti di una naturale reazione al consumismo estremo di un'epoca che ormai, a mio avviso, è in declino o se si tratti piuttosto di qualcosa che va a braccetto con certe correnti di pensiero orientali che da sempre individuano nel possesso dell'essenziale uno strumento necessario alla realizzazione interiore dell'individuo. 
Al di là di tutto, viviamo in città sempre più popolate, appartamenti sempre più piccoli e abbiamo la tendenza ad accumulare una quantità di cose inutili che spesso ci privano di spazio vitale, riducendo le nostre case a musei del superfluo.
Come spesso mi succede nei confronti delle mode, cerco di capire prima di lasciarmi andare ai facili entusiasmi, ma in questo caso, devo ammettere che mi trovo piuttosto in accordo con quello che ho letto e sentito dire.
Non credo che sia partito tutto da "Il magico potere del riordino", best seller di un'autrice giapponese che in poche pagine regala consigli (a volte inattuabili, altre volte interessanti) per trasformare la teoria in pratica. 
Di certo c'è che il pensiero che sta alla base della questione non è nulla di nuovo, ma affonda le sue radici in alcune antiche tradizioni, tra cui quella delle pulizie di primavera. 
Per la religione cristiana la Pasqua, tempo dell'anno che coincide all'incirca con l'arrivo della primavera, è il momento della rinascita, della risurrezione, della luce dopo le tenebre dell'inverno. 
Torna la vita e con lei la voglia di pulizia, di colore, di aria nuova.
Non mi dilungherò oltre in considerazioni antropologiche o simboliche legate a quest'usanza, ma credo che risalire all'origine di certe tradizioni sia utile al fine di coglierne il vero senso.
Adesso, però torniamo a noi.

Come dare un senso ad un sabato piovoso in cui avevi in programma tutt'altro che stare a casa, ma in cui ti vedi costretta a farlo per via dell'ennesimo bidone tirato all'ultimo momento? 
Semplice: dedicandoti ad un'approfondita pulizia, non solo di casa, ma anche della tua vita!

Sto vivendo una fase in cui questa ormai è diventata un'esigenza primaria.
Parlo di fare pulizia nelle mie frequentazioni, nelle relazioni, non mi riferisco alla casa.

Crescendo si acquisisce una certa consapevolezza che prima non si aveva, si impara a conoscersi, a capire cosa si è disposti a sopportare e di cosa, invece, è meglio liberarsi. 
Ho sempre reputato le relazioni la cosa più importante della mia vita: parlo di amicizia, di amore, ma non solo. 
Ogni relazione che intrecciamo è degna di rispetto, necessita di tempo e di attenzioni, altrimenti è destinata a morire.
Logicamente non tutte le relazioni possono essere profonde allo stesso modo, ma credo fermamente che anche in quelle più leggere, più superficiali nel senso letterale del termine, sia necessario investire un po' di noi per fare in modo che restino in vita.
Con l'età ho imparato a esser più selettiva, ho capito che non ho bisogno di circondarmi di conoscenti, ma che preferisco avere pochi amici, ma di quelli Veri. 
Questo non mi rende un'asociale, ma una persona esigente che vuole tanto, perché prova a dare tanto.
Il tempo a nostra disposizione è sempre troppo poco: il lavoro, gli impegni ci privano di ore preziose ed energie e quello che rimane lo voglio passare con chi lo merita, con chi grazie alla sua presenza può arricchire la mia vita, con persone alle quali ho piacere di dare qualcosa, a mia volta.
E allora basta perder tempo con chi non ha la maturità di curare un'amicizia, con chi non ha voglia di ascoltare, ma vuole solo parlare mettendo al centro di tutto il suo narcisismo esasperato. 
Basta egocentrici, basta inaffidabili, basta persone con le quali anche riuscire ad organizzare una serata per vedersi implica una fatica immane di mesi e mesi e poi, una volta trovata la soluzione, all'ultimo disdicono tutto. 
Ormai siamo persone incapaci di tenere fede alla parola data, il concetto di impegno è sfumato a favore del "magari trovo qualcosa di più interessante all'ultimo". 
Nessuno si fa problemi a cancellare i piani altrui: basta un attimo e nemmeno ci si sente colpevoli, basta un messaggio scritto, nemmeno la fatica di fare una telefonata, nemmeno il coraggio.
Così, sempre meno responsabili, sempre più concentrati su noi stessi, piano pian stiamo uccidendo l'idea del rispetto verso l'altro. 
Conta solo l'individualismo estremo, solo l'appagamento - e che sia immediato!- delle nostre esigenze. 
Dimentichiamo che dall'altra parte esiste una persona che ci aveva riservato del tempo -il bene più prezioso che abbiamo-, che quella persona sperava di passare con noi una bella serata - eh sì, vivere senza aspettative, ecco l'altro grande tormentone del momento!-, ma questo non conta, nulla conta, a parte noi stessi.

Ecco, tutto questo mi ha stufata.

Adesso è tempo di pulizia. 

Spolvero i miei mobili, pulisco a fondo nei cassetti, butto via cose che non uso da anni e che mai userò (analogamente, se siamo riusciti a non vederci per un anno, non è poi così necessario vedersi adesso, forse!), passo l'aspirapolvere, lavo il pavimento.
La casa ha una faccia diversa: profuma, respira, c'è aria nuova, spazio nuovo per cose nuove. 

La mia casa, la mia persona, è pronta per accogliere qualcuno di nuovo, ma solo se questa persona avrà voglia di dedicarmi il suo tempo, di chiedermi come sto ascoltando la risposta, di dedicare cura e attenzione all'amicizia o all'amore che costruiremo insieme.

Ho voglia di relazioni autentiche, non ho bisogno di qualcuno con cui ammazzare il tempo, né di qualcuno che mi scaldi il letto.

Tutto il resto, la polvere, gli oggetti superflui che servono solo a riempire, non m'interessano più.

Tempo di pulizie, di selezione, tempo di concedersi ciò che mi merito.

Tempo di primavera, di luce e spazio nuovo per rinascere.



(foto dal web)


sabato 1 aprile 2017

Giorno cinquantotto: il mercato del sabato mattina.

Sabato mattina senza sveglia.
Grigio, ma felice.

Il profumo del caffè invade la cucina.
Un gatto dorme acciambellato ai piedi del letto, l'altro è fuori a godersi il balconcino da quando, subito dopo essermi alzata, gli ho aperto la finestra.

Il rituale del sabato mattina inizia dalla caffettiera sul fuoco. 
Una fetta di ciambellone di mamma mi aspetta sulla tovaglietta a pois.
Poi passo alla doccia: finalmente posso dedicarmi del tempo e mettermi anche una crema profumata, abitudine alla quale, purtroppo, spesso sono costretta a rinunciare.

Senza curarmi dell'orologio che segna ormai le undici passate infilo un paio di jeans ed esco per andare a far la spesa.
Nonostante il cielo incerto, l'aria di quasi aprile sboccia nel profumo nuovo che invade le strade, riempiendo gli angoli con i primi fiori gialli tra i muri.
Normalmente questa è una delle attività che tollero di meno, tuttavia il sabato può diventare addirittura piacevole, perché posso scegliere di andare il mercato.

Sono sempre stata affascinata da questo luogo, sin da quando ero piccola e nelle mattine calde di Luglio accompagnavo nonna in centro a comprare frutta, verdura, calze e tessuti per la casa.

Del mercato amo le facce della gente, i colori dei banchi, la dimensione più umana del commercio. Mi piace quando i proprietari dei banchi chiamano per nome i clienti, quando si contratta il prezzo della merce come in un affollato suk mediorientale.

Il mio è un piccolo mercato rionale, ma c'è un po' di tutto.
Il banco dei cinesi che vendono abiti di bassa qualità, accanto a quello di Latifa che vende la frutta, poco più in là c'è il contadino piemontese che porta la verdura dai campi qui vicino chiamando ancora “Monsù” i suoi clienti e ancora, la coppia di calabresi che vende casalinghi a buon prezzo, il banco di dolciumi con le carte lucide che riflettono il sole e le vecchie caramelle di zucchero colorato dentro barattoli di vetro.

Fare la spesa al mercato mi ha sempre messo di buonumore.
Non so bene il perché, ma trovo che questo luogo così caratteristico racchiuda in sé una sorta di poesia semplice.
Questa passione che mi porto dentro da sempre è inversamente proporzionale al fastidio che provo per i centri commerciali: tristissimi, anonimi non luoghi uguali in tutto il mondo. 
Stessi negozi e stesse facce apatiche della peggior specie di uomo contemporaneo.
Forse quest' insofferenza affonda le sue radici nel fatto che ho dovuto sopportare supermercati e centri commerciali per ben quattro anni di seguito, periodo in cui ogni fine settimana ero obbligata a stare rinchiusa in un negozio di elettronica a guadagnarmi qualcosa per potermi pagare gli studi.
Mi chiedevo perché le persone passassero volontariamente i loro sabato pomeriggio o addirittura, la loro intera giornata libera, in quella specie di contenitore di infelicità tra fast food, mogli che spingono carrozzine in tacchi a spillo o fidanzati annoiati abbandonati come sacchi di farina mezzi vuoti sulle poltroncine dei negozi, in attesa delle compagne che affollavano i camerini.
Mi domandavo, senza riuscire a trovare una risposta valida, perché se fuori esplodeva la primavera non preferissero un pranzo in campagna, una domenica di sole, una passeggiata tra i negozi del centro, un caffè nei dehors.

Forse è solo questione di gusti, di punti di vista, ma io soffrivo della mia reclusione come una carcerata che conta i giorni che mancano per recuperare la sua libertà e intanto loro prendevano d'assalto i negozi di articoli sportivi, riempivano le catene di ristoranti, popolavano i parcheggi già alle nove del sabato, quando io avrei tanto desiderato starmene a casa sotto le coperte o al mercato a far la spesa.

Ed ecco allora che oggi, poter scegliere come passare questi due giorni liberi, poter scegliere di respirare aria naturale e non condizionata, mi riempie sempre di entusiasmo strappandomi un sorriso.

Ode al mercato e alla poesia semplice del sabato mattina.
Lontana dai centri commerciali.








Giorno cinquantasette: il monologo di Frida.

Venerdì sera.
Già si respira il profumo del sabato mattina senza impegni, il lusso di una serata tra amici.
Finalmente riesco ad andare a vedere uno spettacolo teatrale al quale tengo moltissimo.
Si tratta di un'opera dedicata a Frida Kahlo, una delle mie pittrici preferite.
Il Cap10100 è un piccolo teatro indipendente, uno spazio piacevole di incontro e aggregazione dove nascono spesso idee interessanti. Il centro è adagiato sulla sponda destra del fiume Po, ci sono anche dei campi sportivi e in estate musica dal vivo.
Lo spettacolo ha inizio alle nove e mezza.
Con un paio di amici ci prendiamo una birra in attesa che inizi.
Mi piace sempre guardarmi intorno quando sono a teatro, o al cinema.
Amo curiosare tra le facce degli altri per riconoscere, fiutare, i miei simili e intuire, inventare storie tra gli sconosciuti.
Dietro di me qualche giovane coppia, molti gruppi di amiche, un ragazzo in disparte intimidito e silenzioso. Qualcuno scrive sul telefono in attesa che inizi lo spettacolo, qualcun altro chiacchiera con il barista.
Le luci si abbassano e un' attrice dalla faccia interessante entra sul palco con una corona di fiori a mo' di cerchietto, come usava Frida e una maglia bianca. Insieme a lei solo una giovane musicista che accompagnerà tutto il monologo con la sua chitarra.
Mi piace la sua voce, l'intonazione che usa, la forza che dà al personaggio attraverso la parola.
Un po' meno il testo del copione palesemente scopiazzato dal film dedicato alla pittrice messicana.
Andare a teatro, così come al cinema, è sempre un'esperienza forte, a volte quasi estatica -oltre che estetica- che mi trascina in una dimensione altra, dove smettono di esistere le preoccupazioni, le paure, le tristezze quotidiane.
Ogni istante passato immersi nella bellezza dell'arte dà senso alla vita trasformandola da semplice accumularsi di giorni senza senso, in una speciale poesia intessuta di bellezza.
Passa un'ora come fossero dieci minuti.
Mi rimane dentro una sorta di fascinazione nuova per quel mondo di cui, in un certo senso, anche se molto lato, inizio a far parte anche io.
Mi chiedo come debba essere sentire un pubblico in silenzio per un'ora intera che pende dalle tue labbra, che ti ascolta rapito. Il vero protagonista del teatro è il pubblico, non chi sta sul palco.
Molti non l'hanno capito, ma ieri sera ho sentito un'emozione forte per quella ragazza che ha avuto la fortuna di avere un pubblico partecipe e rapito. L'ho invidiata per qualche istante e ho pensato a quanto sia bello, avere qualcuno che ascolta veramente ciò che hai da raccontare, non solo sul palco, ma anche nella vita reale.

Forse, allora, quello a cui ho assistito non è un vero e proprio monologo. 
Forse, in questo preciso momento della mia esistenza, la sola cosa di cui ho davvero bisogno è qualcuno che trasformi i miei monologhi in dialoghi aprendo il suo cuore al desiderio di ascoltarmi.


La bellezza di una sera a teatro, una sera che ancora una volta, ha altro da dirmi.

Oltre la superficie, più in profondità, c'è sempre un messaggio nascosto tra le cose.

Sta solo a noi saperlo scovare.