martedì 30 maggio 2017

Giorno novantasette: Se ami qualcuno lascialo andare.

È sempre difficile tornare in un luogo dove si è stati felici.
È difficile ma è parte dell'inevitabile percorso di crescita che tutti, prima o poi, ci troviamo ad affrontare.
Crescere significa anche questo: imparare a guardare in faccia la realtà, spolverandola dalla patina luminosa che ogni pericolosa tendenza a idealizzare le regala.

Torno qui dopo quasi due anni di assenza.
Torno qui e mi sembra di non esser mai partita.

Gli odori dei calamari fritti che esce dai bar pieni di storie da raccontare, i pavimenti sporchi ricoperti da un tappeto di salviettine di carta leggera e stuzzicadenti usati, le facce dei passanti che sanno essere cordiali se hai voglia di scambiare due parole con uno sconosciuto per sentirti meno solo: nulla è apparentemente cambiato.
Nemmeno il rumore dei passi rapidi sulla scale della metro, la voce negli annunci che scandisce i nomi poetici delle fermate, la sorpresa di qualcosa di nuovo ad ogni angolo.

Il cielo, ecco, solo il cielo, mi pare diverso da quello che conosco.
Un cielo stranamente indefinito di un noncolore grigiastro di nuvole e celestino sbiadito: nulla in confronto al blu pieno che riempie normalmente ogni angolo libero tra i palazzi.
Un cielo un po' stanco che mi accoglie e mi accompagna -salvo per l'eccezione di pennellate gonfie di bianco su un azzurro deciso di mezzo pomeriggio- in questi due giorni rubati alla mia vita di sempre.

Mi abbandono completamente alle sensazioni, lascio che mi invadano, che mi percorrano, senza opporre resistenza, senza cercare di capire, senza giudicarmi.
Affronto questa parentesi senza aspettative.
Non forzo gli eventi, lascio che le cose vadano come devono andare, mi affido certa che succederà la cosa migliore.
Non so esattamente se il mio bramare il ritorno sia attaccamento a un'idea che di questo luogo mi sono costruita vivendoci o piuttosto un vero desiderio da cui non riesco a liberarmi.

Quello che però so per certo è che qui mi sento a casa come in nessun altro posto al mondo.

Nonostante da casa sia parecchio distante.
Nonostante adesso la mia casa sia di nuovo altrove.
Nonostante il flusso ininterrotto di persone che mi rende un corpo invisibile tra tanti altri.
Nonostante questa lingua che amo nasconda ancora in sé una serie infinita di piccole insidie impercettibili.

Forse amare significa davvero imparare a lasciar andare.
E allora oggi, per la prima volta, Amo davvero questa città della quale fino a poco fa ero prigioniera, vittima di un feroce innamoramento dal quale non sapevo uscire illesa.

Non ho chiaro se questo è il momento in cui smetto di desiderare o quello in cui inizio a sentire che anche lontano da qui, ciò che questa città mi ha insegnato, io lo porterò dentro ovunque vada.
Forse solo mi abbandono all'evidenza che anche da lontano, per ora, questo amore può esistere ancora.
Forse smetto di volere ciò che non ho, non dimenticandolo, ma solo lasciandolo lì, sospeso, in attesa di quando sarà il momento di un eventuale ritorno.
Ma questo dubbio lieve non porta con sé amarezza.
Ha, piuttosto, un piacevole retrogusto nostalgico che diluisco nel mio secondo bicchiere di birra bionda e fresca.
Torno ad abbracciare il mio "regno del tutto è possibile" dopo una lunga distanza necessaria a capirlo e a capirmi, dopo una lontananza che è servita a farmelo desiderare ancor di più, ma anche a salutarlo senza più lacrime.

Oggi faccio pace con queste strade che mi appartengono anche a chilometri di distanza, con i marciapiedi e le notti che sembrano non finire mai, oggi riassaporo la sensazione di vita nuova e rivelazione che qui avvertivo.
Oggi dimentico il dolore lacerante della separazione, l'amarezza del desiderio incompiuto, perché so che ormai questa città fa parte di me come io faccio parte di lei, perché sento che il mio non viverla più non mi priva di nulla, perché forse, prima o poi, tornerò qui con una nuova valigia e una nuova storia tutta da scrivere.
E niente sarà com'è stato.
Se sarà, sarà semplicemente un'altra cosa, com'è giusto che sia.
Oggi accetto che tutto vada come deve andare e in questo non c'è rassegnazione, non c'è passività.
C'è la gioia del sentirsi parte di un luogo che non abbandonerai mai, dal quale anche se ti allontani sai che sarà per poi tornare.

Con gli occhi spalancati sulla bellezza e il cuore pieno di gratitudine.















venerdì 26 maggio 2017

Giorno novantasei: Inspiro, ispiro. La magia delle parole.

Inspirazione: atto dell'inspirare, immettere aria nei polmoni dall'esterno.
Ispirazione: estro creativo, impulso alla creazione artistica.

Curioso come queste due parole, apparentemente estranee tra loro, siano separate da una sola, piccola lettera: la "n".
Sono due termini che appaiono distanti nei loro significati, ma che in realtà hanno un legame speciale che le unisce.
Me ne sono accorta stamattina tornando dalla piscina.

Il Venerdì mattina è sempre un momento privilegiato per me.
Un momento di inspirazione -mai come durante l'attività fisica diventa fondamentale saper respirare nel mondo giusto- e di profonda ispirazione: aspetto l'autobus osservandomi intorno, i dehors sono pieni di gente che chiacchiera o sfoglia il quotidiano in compagnia di un caffè, ci sono anziani che trascinano con passo incerto i loro carrellini della spesa verso il vicino mercato, la vita di quartiere scorre al suo consueto ritmo quotidiano.
Amo la semplicità di questi fotogrammi di consuetudine.
Non so perché, ma il semplice fatto di starmene immersa in questo quadro vivente che non racchiude in sé nulla di straordinario mi riempie di ispirazione, stimola centinaia di collegamenti, idee, richiama immagini in un concatenarsi incessante di ipotesi, possibilità, fantasie.

Ci ripenso adesso davanti alla mia seconda colazione fatta di caffè americano a ciambellone (questo è un altro dei motivi che mi fanno amare il Venerdì): ogni atto creativo è un movimento che parte dall'esterno per arrivare dentro, sin nelle vene di chi osserva e Sente, per poi tornare fuori trasformato, incarnato in parole immagini o in qualsiasi altra forma di espressione.

Ispirare, inspirare.
In fondo non c'è molta differenza tra l'atto del respirare, del prendere ossigeno e quello del creare lasciandosi accendere da ogni piccolo stimolo esterno.

Si inspira e ci si lascia ispirare per lo stesso motivo: Vivere.






mercoledì 24 maggio 2017

Giorno novantacinque: trantacinque gradi in attesa della libertà.

Giorno novantacinque, sono fuori tempo massimo.
Avevo promesso di scrivere un post al giorno e tante volte non ci sono riuscita.

Le ore di una giornata non bastano mai quando lavori tanto e provi a farlo bene, ma soprattutto quando oltre a lavorare vuoi anche vivere e allora fatichi a rinunciare alle tue passioni, anzi, proprio non hai alcuna intenzione di farlo!
Così arrivi alla fine di Maggio, al tuo novantacinquesimo giorno da quando hai deciso di accettare una sfida che ti sei lanciata da sola e un po' ti arrabbi con te stessa per non esser riuscita esattamente nel tuo intento, ma poi sorridi e ti dici che va bene lo stesso, che in fondo se non sei riuscita a scrivere un post al giorno poco importa, l'importante è che tu quelle ragione per sorridere le abbia trovate nel quotidiano anche se non sono finite su questa pagina.

Giorno novantacinque, meno dieci alla libertà.

Il nove Giugno finirà la scuola.

Poi restano ancora parecchi giorni di lavoro: burocrazia, adempimenti vari, pratiche noiose che non dovrebbero nemmeno toccare a un insegnante, ma sarà tutto meno intenso.
Torneranno le lunghe giornate dai ritmi più distesi, la sveglia smetterà di essere il mio peggior nemico, finalmente potrò dedicarmi alle mie camminate, ai giri in bici con la macchina fotografica al collo, a leggere senza dover scegliere se dedicare mezz'ora a quelle pagine o al sonno.
Mi aspetta un'estate colorata di idee, movimento e luce.
Ho in cantiere sogni e progetti.
Ci sono cose da muovere e altre che arriveranno da sole.
Ci pensavo oggi sorridendo mentre tornavo a casa.

Sono giorni molto stancanti, mi accorgo di trascinarmi dalla fatica che faccio a scegliere cosa indossare al mattino, dalle scarpe che non c'entrano molto con il resto dei vestiti, dai capelli che non ho tempo di andare a tagliare.

Eppure, nonostante tutto questo, sto bene.

Non lo dico per convincermene, come qualcuno sostiene, lo dico perché lo sento.
Stare bene ed essere felici sono due concetti che stanno vicini l'uno all'altro, si sfiorano, si fondono in una cosa sola.
Anche quando senti che ti manca qualcosa, anche quando comprendi che la perfezione non esiste e che la felicità non è quella preconfezionata con cui sei stato cresciuto dal mondo in cui vivi.
Anzi, forse proprio quando comprendi che felicità e perfezione non sono sinonimi inizi realmente a vivere.
Accetti le tue imperfezioni, abbracci le tue mancanze, ti perdoni, impari a dare spazio a quello che sarà, smettendo di rincorrere, di forzare, di aspettare.

Giorno novantacinque.

Oggi non è successo niente di speciale a parte trovarmi nel piatto una fetta di pollo a forma di cuore, leggere centinaia di messaggi di una persona che ormai sento di poter lasciar andare senza più dolore, pensare a una valigia per un ritorno importante, sentire che sto bene anche nella mia meravigliosa vita imperfetta.





lunedì 22 maggio 2017

Giorno novantaquattro: il salone del lunedì.

Il mio Salone del libro è di lunedì.
Da sempre.
Non è quello dei bagni di folla del fine settimana, a cui comunque mi piace partecipare per poter prender parte all'entusiasmo collettivo.
Ma è quello del lunedì.

Il lunedì la grande macchina del salone inizia a rallentare.
Ed ecco che passeggiare tra i padiglioni diventa davvero un piacere: c'è aria, spazio vitale, il lusso di poter indugiare davanti ai libri per ore senza la calca che spinge, che pressa, senza il fiato sul collo.
Il lunedì, se vuoi, riesci addirittura a prenderti un caffè senza che una coda interminabile ti faccia passare la voglia.
Nemmeno all'entrata c'è da aspettare.

Per questo e per molto altro ancora, quello del Lunedì è da sempre il mio Salone.
E anche quest'anno non mi smentisco.

Incontro casualmente amici e conoscenti mentre vago senza meta, spio senza fretta nelle sale dove si susseguono gli ultimi incontri sugli autori, mi soffermo ad accarezzare con gli occhi centinaia di copertine o trame di libri sconosciuti e poi, sempre con calma, la calma che ti è concessa quando ormai la foga è passata e ogni cosa si sta spegnendo lentamente, ma in una lentezza splendente e perfetta, mi abbandono agli acquisti.

Come ogni anno, anche in questo caso, la tradizione si ripete.
Di sabato mi lascio tentare, lascio che siano i libri a chiamarmi, li scruto, li ascolto li odoro.
Poi vado a casa e se il lunedì, ricordo esattamente quel determinato libro che mi sembrava avermi colpita, allora torno da lui e lo compro.

Non puoi sottrarti a un libro che ti ha scelto.

E così anche questa volta esco con le borse in tela che pesano più del dovuto e la locandina del Salone che quest'anno è meravigliosa come mai prima e che incornicerò presto per appenderla sopra il divano.

Per essere il Lunedì del mio Salone ho scritto anche troppo.
Ora chiudo e apro il libro.
Uno dei a caso tra quelli che compongono il mio ricco bottino di questo delizioso lunedì di Maggio.




domenica 21 maggio 2017

Giorno novantatré: un fine settimana di sei mesi.

La mia città è straordinaria: probabilmente sentendosi stanca di quella vecchia storia per cui Torino è una città dove non accade mai nulla ha deciso di sfatare questo falso mito e lo fa soprattutto a Maggio, quando nel giro di un fine settimana condensa tutti gli eventi che nelle altre città si susseguono durante sei mesi.

Ecco allora che diventa davvero difficile riuscire a starle dietro.

Amo leggere, amo i libri, il teatro, la natura, lo yoga e la bici, amo l'aria aperta, camminare, ascoltare buona musica dal vivo.
Ma come posso fare a sperimentare, a vivermi tutto ciò se accade tutto in contemporanea?
Del dono dell'ubiquità, al momento, ne sono sprovvista.
Così mi tocca scegliere - cosa che in certi casi risulta davvero difficile!-

Come barcamenarsi tra Narrazioni Jazz, Salone del libro, letture tra gli scaffali delle migliori librerie indipendenti della città, nei cortili dei condomini, sui tram del centro, aperitivi in musica, lezioni di yoga tra boschetti e parchi, spettacoli di teatro del Fringe festival, camminare organizzate che attraversano la città in lungo e in largo passando dalla collina al fiume, ai monumenti del centro, godermi un giro letterario in bici sulle orme dei grandi scrittori che a Torino hanno vissuto e che ne hanno scritto nelle loro opere?
Come posso fare a non perdere nemmeno un grammo di tutta questa poesia?

Si sa: scegliere è rinunciare.
Ma rinunciare a qualcosa è anche valorizzare qualcos'altro.

E quindi passo il mio Sabato a girovagare tra gli stand del salone che quest'anno spegne trenta candeline in una straordinaria edizione speciale in cui l'orgoglio dell'evento più torinese che c'è brilla più che mai nel suo successo senza precedenti (alla faccia di chi ce lo voleva portar via)!
Bottino ricco anche questa volta: tra romanzi di autori poco conosciuti, libri di yoga per bambini per sperimentare in classe qualcosa di diverso, tshirt che mi parlano.
Mi fermo a gustarmi un paio di letture e ad ascoltare interessata incontri con gli autori.
Ogni anno è una magia, questa volta ancor di più!
L'idea è come al solito quella di tornare per una passeggiata più solitaria in un secondo momento e godermi il silenzio del salone che si svuota e si prepara a far le valigie, in quello strano momento di quiete dopo il delirio di voci, parole, suoni e pagine in cui le luci si spengono e già si sente la mancanza della festa che ogni anno si respira entrando al Lingotto.

Il giorno seguente mi allontano un po' dalla folla per immergermi in una giornata lenta in mezzo ai boschi ai margini della città.
I produttori hanno portato il loro cibo dalle cascine vicine, c'è aria di una domenica normale sotto il sole prematuro di un'estate inattesa, le bici, lo yoga sotto i quasi trenta gradi, troppe graminacee a rovinarmi la bellezza di tutto questo.
Ma faccio in tempo a gustarmi una birra fresca e a raccogliere spunti per i prossimi percorsi su due ruote, a rubare qualche scatto e a fare una lunga camminata sotto l'ombra di alti alberi ombrosi.

Anche quest'anno Maggio sa regalare momenti di grande ispirazione ed entusiasmo.
La mia Torino brilla sotto il suo miglior cielo, rendendomi orgogliosa di Lei!








mercoledì 17 maggio 2017

Giorno novantadue: Pollicina.

Sono giornate ad altissima densità di impegni, fretta, corse forsennate contro il tempo, consegne, scadenze, doveri, impegni, sveglie che suonano troppo presto e il mio corpo che non riesce a rispondere come dovrebbe e che si riaddormenta per ancora due minuti, dai ancora cinque...merda! Ne sono passati venticinque, sono in ritardo!
Prepararsi in meno di mezz'ora per una come me che ama rispettare la sua natura lenta, per una a cui piace prendersi il caffè con calma e mettersi il mascara per bene piegando le ciglia come va fatto, per una che i vestiti non se li prepara certamente la sera prima, per una che deve ricordarsi i libri, l'acqua fresca per i gatti, controllare che siano usciti da armadi e rientrati dal balcone...è davvero troppo poco e ultimamente sta succedendo troppo spesso.
Segno che ormai sono in riserva, che la mia testa e il mio corpo hanno bisogno di uno stop prolungato di quelli dove riprendi fiato, vita, colore.

Ma oggi sono successe cose magiche, come spesso mi accade.

Non mi stanco mai di guardarmi intorno mentre cammino per strada e tra una corsa e l'altra scorgo i segni che amo scovare, proprio come una piccola Pollicina che cerca la sua strada fatta di minuscole briciole di pane, per arrivare finalmente a Destinazione.

A scuola mi hanno portato una torta.
A forma di cuore.

I cuori mi inseguono: li trovo ovunque, addirittura nelle pozzanghere, come qualche mese fa mi successe.
Foglie sotto gli alberi, coriandoli sui marciapiedi, scritte microscopiche dove non crederesti mai, caramelle che mi vengono offerte e via dicendo.
Qualcuno mi chiamava Regina di cuori, per questo motivo.
Il mio zerbino ha un cuore disegnato sopra.
E un cuore di rafia sta appeso alla porta di casa.

Più tardi, uscendo da un'estenuante riunione, sono incappata in un piccolissimo foglietto di carta con sopra disegnato ...un cuore!

Assurdo come le cose senza senso apparente siano in grado di rallegrarmi le giornate, anche quando il carico da portare si fa pesante, anche quando di tutto ho voglia, tranne che di emozionarmi per delle piccolezze senza logica.

Continuo il mio cammino seguendo segni sparsi sui marciapiedi, tra le forme delle nuvole, nelle sagome dei fiori.
Le mie briciole sono minuscoli chicchi di poesia semplice.
Il mio intento è dare ad ogni dettaglio un posto preciso, saperlo leggere e collocare nella strada che mi porta verso Casa.

Sorrido, adesso.
Chissà quale altro dettaglio incontrerò domani.








lunedì 15 maggio 2017

Giorno novantuno: l'abito bianco.

Non rientro in quella categoria di donne che ha il sogno dell'abito bianco, altrimenti quell'abito molto probabilmente lo avrei già indossato.
Inoltre se in questo momento avessi un compagno che amo e che mi ama al mio fianco, molto probabilmente ci starei vivendo insieme da un po' senza necessariamente essermelo sposato.

Tuttavia non nascondo che indossare un vestito da sposa, seppur per gioco, seppure per motivi legati alla finzione teatrale piuttosto che a quella reale (in fondo la cerimonia matrimoniale cos'è se non uno spettacolo dove ognuno indossa la sua maschera migliore interpretando il proprio ruolo ben stabilito?) fa un certo effetto.

Un effetto strano, estraniante, ma anche piacevole.

Sarà che credo che non mi accadrà una seconda volta, ma vedermi addosso tanta delicata bellezza è stato bizzarro e stranamente affascinante.
Così com'è strambo e affascinante salire sul palco per provare e riprovare uno spettacolo al quale speri non assista nessuno che ti conosce, perché forse, tu hai capito che ti piace di più stare "dall'altra parte", tu preferisci stare dietro.
Tu ami stare dove non ti si vede, ma dove proprio per questo ti senti più libera di esprimerti: dietro lo schermo per scrivere, dietro l'obiettivo per fotografare, dietro agli amori sbagliati perché sai che non potranno mai compiersi davvero e non compiendosi, non finiranno.

Ti piace stare dietro ad ogni cosa e situazione.

Perché a te non piace apparire, ad essere sinceri, ma ti piace essere e ami che siano gli altri a scoprirti attraverso ciò che crei, attraverso le tue parole, le tue immagini, la tua presenza.

Ma a teatro ci vai lo stesso, perché è un po' una sfida con te stessa.
Così come vai un po' ovunque da sola.
Così come fai cose che tempo fa non avresti immaginato possibili.
Semplicemente quando una cosa ti spaventa ti ci butti in mezzo a capofitto, la attraversi, perché quello è il solo mondo che conosci per non temerla più.

Oggi un bimbo a scuola mi ha detto che dovrei darmi da fare a cercare un fidanzato, perché se continuo ad aspettare di incontrarlo casualmente, non lo troverò mai.
Ho riso di gusto e ho pensato che i bambini sanno sempre stupirti toccando con leggerezza anche le ferite ancora aperte.
E poi ha aggiunto :" Così potremo venire tutti al tuo matrimonio"!

Chissà se forse anche "l'abito bianco" un giorno smetterà di farmi paura.
Chissà se smetterò mai di inseguire uomini impossibili, inaffidabili e lontani da ciò che desidero (o che credo di desiderare).
Forse non è un caso se fino ad oggi è andata così.
Dovrei tentare di indossarlo, prima o poi quest'abito, infilandomici dentro con tutta me stessa come sul palcoscenico?
Forse non mi sono mai sentita all'altezza di un vero finale felice.

Oggi è arrivato il momento di darmi un'opportunità, di smettere di stare sempre dietro, di fare un passo avanti guardando negli occhi la mia vita.






domenica 14 maggio 2017

Giorno novanta: in buona compagnia.

Il piacere del fare le cose da sola, lo scopri con il tempo.
All'inizio la solitudine, come è normale che sia, la temi.
Credi inevitabilmente- perché così ti viene fatto credere- che stare da solo sia triste e che invece stare con qualcuno equivalga ad essere felice.

Mai esistito inganno più grande.

Io la mia solitudine ho imparato ad amarla quando ho iniziato a conoscerla e per conoscere qualcosa devi prima affidarti a lei, provare ad accoglierla, essere aperto verso lo sconosciuto.

Oggi ho percorso sedici chilometri in compagnia di me stessa.

Avrei potuto farlo con molte altre persone, ma in fondo mi andava di starmene un po' in mia compagnia.
Attraversare la città immersa nel verde è sempre straordinario: l'immenso parco che si estende da nord a sud passando per il centro seguendo il percorso del fiume nasconde una miriade di piccoli e immensi tesori.
Con gli occhi catturo fotogrammi infiniti, dettagli impercettibili: dentro costruisco storie, fuori ci sono solo i miei passi ed il respiro a dettare il ritmo.

Sono spettatrice di un grande quadro animato: la ragazza con il cane che si bagna nel fiume, la donna che legge sotto il grande albero, padre e figlia sul tandem, le finestre gialle affacciate sul corso, le case signorili nascoste tra le fronde, il profumo costoso di una signora che mi passa accanto, gli occhi petrolio di un giovane straniero, i giapponesi che fotografano e parlano sottovoce nel loro stile minimalista, i mille ponti della mia città, la collina che svetta tra le nuvole e il pentagramma dei fili della luce sopra la mia testa.

Camminare da sole, a lungo.
La gente si stupisce quando glielo racconti.

Come se ci fosse qualcosa di insano nello sceglierla la solitudine.
Una solitudine che non è imparentata con la tristezza, ma con la consapevolezza.
Amare la solitudine non significa non amare le persone: anzi, è esattamente il contrario.
Io ho imparato ad essere selettiva.
Non mi va più di perder tempo con chi non mi arricchisce con la sua presenza e sempre meno sento la necessità di riempire il mio tempo con chiunque.
Diffido di chi ha troppi amici (o per meglio dire, di chi crede di averne tanti), non mi piace chi non sa star da solo: chi non apprezza la propria compagnia ha sicuramente qualcosa di poco piacevole da dare gli altri.
E quando arrivi a questo, ami ancor di più gli altri.
Perché gli altri sono coloro che davvero scegli, le persone a cui vuoi darti e che a loro volta si daranno a te in maniera incondizionata, creando relazioni forti.

Io cammino da sola, sì, ma non per questo non so camminare con gli altri.
Amare se stessi, per amare gli altri.
Amare la propria compagnia per creare legami che uniscono senza incatenare.










sabato 13 maggio 2017

Giorno ottantasette: il piacere del non fare.

Giorno ottantasette, ottantotto, ottantanove.
Giovedì, Venerdì, Sabato.

Dire, fare, (non)baciare, lettera, testamento.

Ma fare, soprattutto fare.

Fare così tanto da non potersi nemmeno ritagliare mezz'ora per scrivere.
Fare perché non hai scelta (o così credi).
Fare senza accorgerti di fare troppo.

Entra, esci, corri, vai, torna.
Lavoro, piscina, teatro, scuola, casa, amici.
Parla, correggi, condividi, rifletti, infila il costume, entra in vasca, fatica, prepara lezioni, stai otto ore a scuola, passa l'aspirapolvere, cambia asciugamani, cucina, svuota la lettiera dei gatti, porta fuori la spazzatura, compila progetti, cura le relazioni con le famiglie, perdi tempo in noiose questioni burocratiche, prenota una visita al telefono, taglia i capelli, organizza un fine settimana.
E poi esci, vieni, vai, torna, saluta, parla, abbraccia, scrivi, commenta, spostati in macchina, a piedi, in metro.

Respira.

Adesso, però respira.

Dopo un giovedì di super lavoro, un venerdì sera che finisce troppo tardi per un sabato mattina con una sveglia presto, troppo presto, un workshop di story telling, un pranzo tra amici, una sera al cinema e una passeggiata di un'ora nella piacevole tenerezza delle temperature di Maggio, apro la porta e mi dico: basta!

Respira.

Non farò il letto, non sistemerò i libri sul tavolo, non metterò a posto i cuscini sul divano.
Lascerò i vestiti accumularsi in una montagna scomposta sulle sedie del soggiorno e della camera da letto, le scarpe all'entrata, i bicchieri da lavare.

E la mia vita continuerà, esattamente come prima. Non accadrà nulla, solo ci sarà meno perfezione e più libertà, la libertà del fermarsi, del dire di no, del buttarsi in un letto disfatto e dormire senza preoccuparsene.
Il gusto del non fare quello che andrebbe fatto.
Un piacere da assaporare alla quasi mezzanotte di un sabato sera qualunque, alla vigilia di una domenica lenta e senza programmi.



mercoledì 10 maggio 2017

Giorno ottantasei: imparare a perdonarsi.

Della pioggia di questi giorni, dei cieli grigi di Maggio, amo la sensazione dell'inverno che si trascina ancora un po' prima di lasciar spazio alla luce abbagliante e al calore opprimente dell'estate, mentre le temperature, intanto, si fanno già più dolci.
La pioggia in questa stagione è lieve, sembra cadere per accendere le piante di un verde ancor più vivo e per regalare acqua ai fiori nuovi che riempiono i prati con macchie vivaci.

La pioggia in macchina, soprattutto, trovo sia piacevole.
Il ticchettio leggero delle gocce sul tettuccio, i piccoli cerchi perfetti sul parabrezza, le gemme trasparenti che si posano sullo specchietto dal lato del guidatore.
Le matasse di nuvole scure sono enigmi da risolvere, hanno sagome affascinanti, nascondo la forza di qualcosa che verrà portando cambiamenti.

Se è vero che i cani finiscono per assomigliare ai loro padroni, è altrettanto vero che le macchine subiscono la stessa sorte.

La mia macchina è una vecchia ma affascinante Lancia y grigio chiara, niente di particolare, uguale a tante altre in giro.
Ha quasi quindici anni, eppure a me sembra sia nuovissima.
La carrozzeria ammaccata in molti punti, colpa della mia mancanza di cura in certe manovre di precisione in passato e anche della poca delicatezza di qualcuno incontrato durante gli anni: sconosciuti che arrivavano e poco dopo scomparivano non senza lasciare cicatrici e bolli ancora oggi evidenti.

In fondo siamo quello che siamo grazie - o a causa- di quello che abbiamo vissuto.

La mia macchina è rispettabile, certo.
Svolge la sua funzione com'è chiamata a fare: ogni tanto, non troppo spesso, a dire il vero, perché preferisco di gran lunga i piedi o la bici, mi porta da un punto all'altro della città senza fare storie, a volte facciamo qualche gita fuori porta.
Non le ho mai chiesto cose speciali, nemmeno mi sono mai sognata di fare con lei un lungo viaggio in autostrada.
Molto probabilmente perché non la reputo in grado: non abbastanza affidabile, non abbastanza prestante.

Esattamente com'ero solita fare pensando a me stessa.

Chiedere il minimo, senza avere grandi aspirazioni, accontentarsi delle briciole, pensando che forse non potevo pretendere di meglio.
Bene, oggi le cose stanno un po' diversamente.
La carrozzeria dismessa non è sinonimo di scarsa qualità.
Ho promesso a me stessa che appena smetterà di piovere inizierò a prendermi cura regolarmente della mia macchina, la laverò più spesso e ne pulirò gli interni.

Io credo che i nostri oggetti parlino profondamente di noi, molto di più di quanto siamo abituati a pensare.
Le attenzioni che dedichiamo alle nostre cose, lo stato in cui le manteniamo in vita o le lasciamo lentamente morire senza intervenire sul passare del tempo, sono molto di più che dettagli insignificanti.
Avere cura di ciò che indossiamo, dell'auto che guidiamo, delle scarpe che mettiamo ai piedi è il modo in cui proiettiamo al di fuori l'idea che abbiamo di noi stessi.

Per questo mi chiedo scusa, oggi, per non essermi curata abbastanza, perché tanto, non mi sentivo all'altezza, per aver lasciato che le situazioni mi consumassero senza intervenire per cambiarne la direzione, per non aver lavorato sulle ammaccature, i bolli, le righe della carrozzeria, perché in fondo, pensavo, basta che io vada avanti, come tutti si aspettano che faccia.

Oggi mi chiedo scusa per tutte quelle volte che ho sbagliato e non mi sono perdonata.
Perché sbaglia solo chi vive, sbaglia chi ama, sbaglia chi sente.
E io non so fare altrimenti.
Imparo a perdonarmi per tutte quelle volte che non ho creduto nelle mie aspirazioni, non ho visto le mie capacità, non ho assecondato i miei veri desideri accontentandomi del minimo.

Da oggi voglio esser quella che ho desiderato, quella che desidera e che desidera in grande perché si merita di essere felice.
Così come la mia macchina, pulita sotto la pioggia di oggi, impeccabile sotto il primo sole di Maggio, fiera di tutte le sue imperfezioni che ne hanno fatto quello che è, pronta a viaggiare anche ad alta velocità, anche controvento.


 (foto mia).


martedì 9 maggio 2017

Giorno ottantacinque: di terrazze estive e canzoni stonate.

Di questi due giorni di straordinaria normalità ho amato molte cose.

In ordine sparso: le voci degli invitati che parlano a volume abbastanza alto da sentire il contenuto dei loro discorsi e distinguere le risate mentre fumano in terrazzo, probabilmente a fine cena -scena tipicamente estiva-, il parcheggio sotto casa per due sere di seguito,  il ciambellone appena sfornato di mamma e il suo profumo che riempie le scale di casa, trovare una rivista di trekking in buca, ricevere un messaggio da qualcuno lontano che ti manca e che racconta di averti sognato di schiena mentre ti accarezzava una spalla, un massaggio rilassante di un'ora, riuscire a spiegare un concetto di matematica ad un bambino che la odia, inaugurare un paio di scarpe da tennis bianche, il sorriso incredulo e il ringraziamento sentito di un pedone che hai lasciato passare fermandoti e creando malcontento nel conducente dietro di te (pratica che mi contraddistingue riempiendomi di soddisfazione esistenziale), una fetta di torta alla vaniglia e un calice di Moscato brindando per il compleanno di due Belle donne, la fatica delle prove a teatro e la sensazione che poco per volta le cose inizino ad andare per il verso giusto, il sapore della prima serata calda dopo il ritorno inatteso dell'inverno negli scorsi giorni e il piacere di camminare senza giacca alle undici e sette minuti, il complimento più bello degli ultimi tempi: una persona che stimo che mi trova empatica, scrivere una poesia su Maggio, leggerla in classe senza svelare di esserne l'autrice e sentire che i miei bambini la trovano bella, cantare una canzone a squarciagola in macchina mentre al semaforo uno sconosciuto ti guarda sorpreso.

E di tutta questa poesia, se non scegliessi di fermarla su questa pagina bianca, non resterebbe che un ricordo fragile destinato a perdersi in un istante.

Invece no, io voglio farla mia, voglio rubarla al tempo che passa e costruirci un rifugio accogliente per i giorni meno splendenti.
Nelle piccole cose riposa in silenzio il segreto della vera Felicità.
Ne sono sempre più convinta.
Nella straordinarietà del normale risiede la vera Bellezza.








domenica 7 maggio 2017

Giorno ottantaquattro: Nefelibata, a passeggio tra le nuvole.

Nefelibata: persona che vive tra le nuvole, letteralmente persona che passeggia fra le nuvole.

Da poco ho incontrato questa parola spagnola e me ne sono immediatamente innamorata, ritrovando in lei qualcosa di me.

Ci sono altri termini nei quali si inciampa, apparentemente per caso, ma che sentiamo subito appartenerci, attrarci verso di  loro con una forza inspiegabile.
La magia ammaliatrice delle parole, la sensuale attrazione che una lingua esercita su di me è sempre stata potentissima, sin da piccola quando nelle ore di Inglese, la prima lingua straniera con cui sono entrata in contatto, mi immaginavo felice a viaggiare per il mondo con il solo patrimonio di una lingua che mi avrebbe aperto tutte le porte.
Merito di questa infatuazione - o colpa, dipende dai punti di vista- se crescendo ho provato le sensazioni migliori viaggiando, preparando una valigia, camminando tra strade sconosciute immersa in suoni poco familiari: wanderlust, la "malattia" di chi sente un costante e fortissimo desiderio di andare, viaggiare, spostarsi.

Ma nel mio personale vocabolario sentimentale non ci sono solo termini recenti.

Entusiasmo: dal greco, "dio dentro", l'energia dentro di noi, entrare in contatto con la parte più volitiva del nostro essere, lasciarsi invadere dalla forza creatrice di un nuovo desiderio, quella forza che nessun ostacolo saprà fermare.
O ancora "Empatia", una sorta di comunione affettiva con l'altro, immedesimarsi in lui, sentendo come lui sente.

La lista sarebbe ancora piuttosto lunga, ma queste poche parole bastano per raccontare la mia domenica:l'entusiasmo di un pomeriggio di yoga in un luogo magico, una dimora reale del Seicento.
Distesa sul mio tappetino con la testa fra le nuvole, nefelibata, con il cielo al posto del soffitto.
I respiri che si confondono con i suoni della natura fresca di primavera dopo una mattinata di grigio umido.
Il verde che si accende dopo la pioggia, il canto lieve degli uccelli, una vista sorprendente sulla città brulicante di vita e sulle cime dei monti ancora ricoperte di neve.
Le nuvole, qualche gonfio straccio di bianco sparso qua e là.

Tornare coi piedi per terra dopo esser stata capovolta per un po', scendere di nuovo nel mondo girovagando alla ricerca dell'auto tra gli edifici aristocratici della pre-collina, spiare tra portoni e terrazzini strambi volti dagli sguardi annoiati, incrociare cani di razza e padroni abbronzati, sbucare sulla piazza più grande d'Europa senza sapere come ci sei arrivata.
Gustarsi un gelato in attesa di un treno in una stazione di periferia, trovare graffiti d'amore che fanno sorridere, parlare del prossimo viaggio con un'amica.

Sottosopra, con la testa tra le nuvole, entusiasta e innamorata di questi piccoli attimi di stupore in una domenica qualunque di luce ritrovata.








sabato 6 maggio 2017

Giorno ottantatré: il mudra del desiderio.

Piove senza tregua da qualche giorno.
Stare troppo coi piedi per terra, di questi tempi, potrebbe risultare pericoloso: si rischia che crescano funghi sulle caviglie! E allora ecco che inizio a divagare un po', lascio che la mia testa torni a farsi un giro tra le nuvole, si perda in capriole leggere, lascio che vaghi lontana dalla razionalità che il più delle volte sono obbligata a imporle per poter sopravvivere in questo mondo troppo radicato al peso del reale.

Sono una persona bizzarra, vivo di idee, desideri impalpabili, piccole visioni poetiche, sogni non tangibili; anche se ultimamente i miei sogni hanno un paio d'occhi chiari, un odore buono e un nome.

Che sta lontano.
Che devo dimenticare.
Che prima o poi spero, si disperderà nel vento e nella distanza (così dicono).

Ho sempre avuto la tendenza a starmene in un mondo tutto mio, forse un po' lontano da quello comune e magari per questo che mi sento poco compresa dai più.
Mi piace osservare le forme delle nuvole, trovare faccine nascoste negli oggetti che ci circondano, scovare messaggi segreti tra le pieghe dei giorni.
Ciò che un tempo era un ostacolo, adesso inizia ad essere il naturale stato delle cose, il mio marchio di fabbrica, il mio segno distintivo.

O per meglio dire: d'istintivo.

Sì, perché delle mie stranezze inizio ad andarne fiera, delle mie intuizioni sto imparando a fidarmi e lo devo proprio a questo mio esser poco legata ad una razionalità ingombrante.
Conoscersi è anche darsi fiducia, abbandonarsi alle sensazioni, perché raramente - o meglio, mai- potranno tradirci.

A tradirci è la testa, quando ci imponiamo che deve esser lei a decidere.

Da quando ho iniziato a praticare yoga, sono entrata ulteriormente in contatto con una dimensione più spirituale ed interiore, una dimensione che solo apparentemente risulta slegata dalla vita di tutti i giorni.
Imparare a sentire quello che abbiamo dentro, lasciare che le cose fluiscano senza opporre resistenza è la chiave per riuscire a viver bene ciò che accade al di fuori di noi.
Guardarci dal di fuori senza giudicarci, osservare e lasciare che le cose siano ciò che sono.
Anche quando questo può apparire inusuale o incomprensibile, almeno all'inizio.

Ed ecco allora che la ripetizione di un mantra, un suono sempre uguale o un esercizio di visualizzazione,  possono acquisire un significato nuovo, possono caricarsi di senso solo se abbandoniamo la resistenza al dover dare a tutto una spiegazione scientifica o razionale.
Dedicare qualche minuto al giorno a riconnettersi con noi stessi esercitando la respirazione, diventando consapevoli della nostra parte fisica così come di quella non tangibile, provare a svuotare la mente e a fermarci nell'istante presente, sentire che tutto è energia.

Allora oggi inizio a praticare un mudra nuovo, si chiama "il mudra del desiderio".
Lo so, pare una cosa strana: unire le dita in una posizione singolare, respirare e visualizzare ciò che vorremmo attrarre nella nostra vita.
Sembrerebbe un rito magico.
I più diranno che è assurdo e insensato.
Io lo trovo bello e voglio provare.
Se è vero che si attrae ciò che si è, se è vero che desideri positivi portano a noi cose positive, allora funzionerà.

Intanto continua a piovere.
Stamattina mi sono concessa una pausa dal parrucchiere: massaggio profumato al mango e balsamo nutriente.
Adesso sorseggio un tè, accompagnato da una fetta di ciambellone.
I gatti riposano respirando tranquilli sul letto.
Dentro casa la sensazione di pace è totale.
La giornata non è nemmeno a metà, ma ho già motivi per sentirmi felice e questa sera mi attende una cena tra amici per festeggiare il compleanno di una persona speciale.

Il mudra del desiderio, inizia già a fare effetto.






mercoledì 3 maggio 2017

Giorno ottantadue: canzone d'amore per i tempi morti.

Sono così stanca che gli occhi mi si chiudono davanti a questo schermo troppo luminoso, ma ho fatto una promessa a me stessa e voglio mantenerla.
Ultimamente è come se il mio corpo e la mia mente avessero esaurito tutte le scorte di energia: non riesco quasi mai a formulare una frase o a scriverla senza fare errori e arrivo alla sera senza la forza di fare molto oltre a sedermi sul divano un'ora, quando va bene, a leggere qualche riga.
Intanto le mail a cui rispondere, le bollette da pagare, la lista delle cose da fare si vanno accumulando rubando altro tempo al già poco tempo che rimane.

Ma quanto ne spreco ogni giorno!
Quanto tempo che mi scivola via, quanto tempo che non so usare come vorrei.

Imparare a far tesoro dei minuti ritagliati tra un "devo" e un altro, dare il giusto spazio agli eventi e la giusta priorità alle persone, liberarsi dai pesi che ingombrano il nostro campo insozzandolo di inutilità, smettere di procrastinare, vincere la pigrizia del "lo farò domani", concedersi qualche sacro respiro di pausa, riappropriarsi dei tempi morti, che ormai non esistono più.
Prima che inventassero lo smartphone c'erano tempi morti mentre aspettavo l'autobus, quando facevo la fila in posta, in attesa del semaforo verde.
Allora mi guardavo intorno, a volte incrociavo lo sguardo di uno sconosciuto, leggevo i libri che mi portavo dietro, prendevo appunti sui miei mille quadernetti incompleti disseminati tra le borse che cambiavo continuamente. Alle volte non facevo nulla: semplicemente aspettavo o forse nemmeno quello, mi limitavo a contemplare il vuoto, a respirare l'attesa, ad annoiarmi assaporando il gusto del momento presente.

Era un bel privilegio quello dei tempi morti.

Me ne accorgo solo oggi che il vuoto sembra sempre che sia obbligatorio riempirlo con qualcosa.
Che poi, mi chiedo, non sarebbe meglio smettere di farlo, lasciare un po' di tempo per ciò che è, senza volerlo a tutti i costi colmare con inutili contenuti fasulli?

Mi sono persa in considerazioni che mi hanno allontanata dal mio proposito: isolare nella mia giornata un motivo di felicità.
Forse anche questo è un inconsapevole tentativo di tornare a riappropriarmi del mio tempo: mi impegno a ritagliarmi quotidianamente - o quasi- una mezz'ora (a volte di più) per pensare, costruire un pensiero, cullarlo dentro di me, farlo nascere e curarlo.

Oggi è stato bello sentire il corriere citofonarmi, chiedermi "chi sarà?", rispondere, sentire che non era la pubblicità in buca, avere per un istante il folle presentimento che fosse un regalo di qualcuno che sta lontano, scendere in ciabatte a ritirare il mio pacco per poi scoprire che no, non era ciò che desideravo, ma che era comunque qualcosa di bello.
Hanno pubblicato un mio piccolo contributo su una rivista di pedagogia. Si tratta di un breve articolo, una riflessione sul mio mestiere, che poi un mestiere non è.
In fondo nulla di così importante, ma un impercettibile segno che sono orgogliosa di poter lasciare a tutti gli sconosciuti che inciamperanno tre le mie parole, nate forse, in uno di quei meravigliosi tempi morti che ormai ho perso.

Esattamente come adesso lascio queste parole a chi avrà la pazienza e la curiosità, la dedizione e la forza di arrivare fino al fondo di questo piccolo post quotidiano.

Cose da poco, ma cose che nella loro piccolezza colorano di straordinario i miei giorni.




lunedì 1 maggio 2017

Giorno ottantuno: un caffè per due.

Una giornata di freddo, dopo settimane di estate anticipata.
La pioggia incessante e il desiderio letargico di rintanarsi in un pomeriggio di coperte e libri.
Il lavoro, che anche se oggi è la festa del lavoratore, non puoi evitare.
Una colazione -quasi pranzo- con un'amica, chiacchiere, risate e un regalo magico: due tazzine e un biglietto benaugurale.

Chissà quando potrò bermi questo caffè speciale.

Per il momento le ho riposte all'ultimo piano della vetrinetta.
Sono lì, le posso guardare sempre, così da non dimenticarmi di sperare ancora che prima o poi arriverà qualcuno che se lo meriterà quel caffè.
Quel biglietto rosso me lo sono riletto varie volte, sorridendo, sperando che possa essere premonizione di qualcosa di bello che non tarderà ad entrare nella mia vita.

Uno strano lunedì agrodolce al sapore di domenica, una giornata di autunno ritrovato e immagini ingombranti che non vogliono sbiadire.

Due tazzine amuleto che aspettano il momento giusto per riempirsi di profumo denso e scuro.
Una carezza calda in questo grigio incessante.

Lasciare fluire, lasciare andare.
Vivere scivolando con leggerezza sopra gli epiloghi.
Scrivere un punto e andare a capo.
Iniziare ancora, con una nuova lettera Maiuscola.