mercoledì 3 maggio 2017

Giorno ottantadue: canzone d'amore per i tempi morti.

Sono così stanca che gli occhi mi si chiudono davanti a questo schermo troppo luminoso, ma ho fatto una promessa a me stessa e voglio mantenerla.
Ultimamente è come se il mio corpo e la mia mente avessero esaurito tutte le scorte di energia: non riesco quasi mai a formulare una frase o a scriverla senza fare errori e arrivo alla sera senza la forza di fare molto oltre a sedermi sul divano un'ora, quando va bene, a leggere qualche riga.
Intanto le mail a cui rispondere, le bollette da pagare, la lista delle cose da fare si vanno accumulando rubando altro tempo al già poco tempo che rimane.

Ma quanto ne spreco ogni giorno!
Quanto tempo che mi scivola via, quanto tempo che non so usare come vorrei.

Imparare a far tesoro dei minuti ritagliati tra un "devo" e un altro, dare il giusto spazio agli eventi e la giusta priorità alle persone, liberarsi dai pesi che ingombrano il nostro campo insozzandolo di inutilità, smettere di procrastinare, vincere la pigrizia del "lo farò domani", concedersi qualche sacro respiro di pausa, riappropriarsi dei tempi morti, che ormai non esistono più.
Prima che inventassero lo smartphone c'erano tempi morti mentre aspettavo l'autobus, quando facevo la fila in posta, in attesa del semaforo verde.
Allora mi guardavo intorno, a volte incrociavo lo sguardo di uno sconosciuto, leggevo i libri che mi portavo dietro, prendevo appunti sui miei mille quadernetti incompleti disseminati tra le borse che cambiavo continuamente. Alle volte non facevo nulla: semplicemente aspettavo o forse nemmeno quello, mi limitavo a contemplare il vuoto, a respirare l'attesa, ad annoiarmi assaporando il gusto del momento presente.

Era un bel privilegio quello dei tempi morti.

Me ne accorgo solo oggi che il vuoto sembra sempre che sia obbligatorio riempirlo con qualcosa.
Che poi, mi chiedo, non sarebbe meglio smettere di farlo, lasciare un po' di tempo per ciò che è, senza volerlo a tutti i costi colmare con inutili contenuti fasulli?

Mi sono persa in considerazioni che mi hanno allontanata dal mio proposito: isolare nella mia giornata un motivo di felicità.
Forse anche questo è un inconsapevole tentativo di tornare a riappropriarmi del mio tempo: mi impegno a ritagliarmi quotidianamente - o quasi- una mezz'ora (a volte di più) per pensare, costruire un pensiero, cullarlo dentro di me, farlo nascere e curarlo.

Oggi è stato bello sentire il corriere citofonarmi, chiedermi "chi sarà?", rispondere, sentire che non era la pubblicità in buca, avere per un istante il folle presentimento che fosse un regalo di qualcuno che sta lontano, scendere in ciabatte a ritirare il mio pacco per poi scoprire che no, non era ciò che desideravo, ma che era comunque qualcosa di bello.
Hanno pubblicato un mio piccolo contributo su una rivista di pedagogia. Si tratta di un breve articolo, una riflessione sul mio mestiere, che poi un mestiere non è.
In fondo nulla di così importante, ma un impercettibile segno che sono orgogliosa di poter lasciare a tutti gli sconosciuti che inciamperanno tre le mie parole, nate forse, in uno di quei meravigliosi tempi morti che ormai ho perso.

Esattamente come adesso lascio queste parole a chi avrà la pazienza e la curiosità, la dedizione e la forza di arrivare fino al fondo di questo piccolo post quotidiano.

Cose da poco, ma cose che nella loro piccolezza colorano di straordinario i miei giorni.




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