mercoledì 28 giugno 2017

Giorno centotre: il debutto

Debutto: la prima volta in cui ci si presenta davanti a un pubblico, l'inizio di qualcosa di nuovo.

Debuttiamo centinaia di volte nella vita, così tante che alla lunga nemmeno ce ne rendiamo conto.

Eppure lo facciamo il primo giorno di scuola, quando iniziamo un lavoro nuovo, quando conosciamo i parenti della persona con cui abbiamo una storia, la prima sera che usciamo con lui o con lei.
Debuttiamo sui tacchi di un nuovo paio di scarpe, con indosso un cappotto mai messo, come madri, testimoni all'altare, tra i fornelli, al nostro primo abbraccio, la prima volta che prendiamo un aereo da soli, quando pronunciamo la prima parola in una lingua straniera, al nostro primo no.

Ho debuttato un numero infinito di volte nella mia vita incerta di precaria ultratrentenne.
Talmente tante che ormai gli esordi erano diventati quasi una rassicurante abitudine.
Così rassicurante che non appena ho avvertito una parvenza di stabilità mi sono sentita piuttosto destabilizzata, provando una sorta di vertigine inattesa e l'irrazionale dubbio di non esser fatta per le certezze.
Nemmeno per quelle provvisorie.

Due sere fa, sono salita su un palco per la prima volta nella mia vita.

Non saprei dire se l'ho fatto perché era qualcosa che da sempre mi attraeva o piuttosto perché era una cosa che mi terrorizzava e come la mia natura spesso mi porta a fare, mi ci sono tuffata dentro a capofitto come dentro a un'enorme e spaventosa onda.

Probabilmente per tutti e due i motivi.

Quello che so, però, è che difficilmente si può spiegare l'ansia che percorre ogni muscolo e ogni centimetro di pelle prima di uscire da dietro le quinte e abbandonarsi sotto la luce abbacinante dei riflettori, sotto quella luce che ti mette a nudo sezionandoti con il suo fascio potente, quella stessa luce che, al contempo, però, ti salva, annullando in un buio amichevole i volti seduti in sala.

Il pubblico: già, perché il teatro ha senso solo se c'è un pubblico.

Il pubblico dà un senso a quello che altrimenti resterebbe un banale esercizio di sterile narcisismo.
Recitare, o provarci, è come spogliarsi completamente, è affidarsi senza timori a chi è lì ad ascoltarti e ad osservarti, è accettare di esser ciò che sei.
Perché contrariamente a quanto si possa pensare, sul palco non ci possono esser maschere, al di là di qualunque interpretazione, anche la più magistrale, sei tu, solo con il tuo corpo, con le tue smorfie, con il tuo movimento e la tua voce.
Fare teatro è avere il coraggio di darsi per quel che si è, è un atto di generosità infinita, è provare a vedersi attraverso quegli occhi che nel buio sono lì a scavarti dentro.

Non credo di avere particolari doti da attrice, tutt'altro, eppure questo esordio è qualcosa che mi riempie di orgoglio.
Orgoglio per avercela fatta, per essermi sentita parte di un gruppo, per aver vinto contro la vergogna e la ritrosia a mostrarmi, orgoglio per questo altro piccolo passo verso la me che vorrei essere, una me che impara ad andar fiera di quello che è.

Ogni debutto porta con se un insegnamento, questo, lo ricorderò come il tassello mancante, come la prima tessera di un nuovo percorso verso me stessa.










martedì 20 giugno 2017

Giorno centodue: i giorni dell'arcobaleno.

Giorno centodue: in realtà siamo molto più avanti, non sono più riuscita a scrivere e mi sento in colpa per questo, ma come ho già detto altre volte, ogni tanto bisogna pur accettare i propri limiti.

Di limiti, stasera non voglio parlare, però.
Stasera voglio parlare di quello che mi ha reso felice, davvero felice, negli scorsi giorni, ossia riabbracciare un amico che non vedevo da sette anni, vederlo addormentarsi sul mio divano in pose assurde cercando di sopravvivere alle notti afose, fare colazione insieme con un caffè (sempre troppo forte per il suo palato argentino) e iniziare a ridere di una miriade di sciocchezze in una lingua inventata, una lingua segreta che ogni giorno cambiava forma riempiendosi di irripetibili neologismi.

Avere un amico da portare a zonzo è meraviglioso: improvvisamente ti scopri guida turistica della tua città, mentre ipotizzi percorsi inusuali che possano innamorarlo di casa tua.
Così si passa da un aperitivo in piazza in un bar estremamente elegante a una passeggiata tra le vie del quartiere più multietnico della città, da una serata a teatro a ridere di un' imbarazzante opera lirica a una birra con vista dall'alto della città, da una percorso nel verde del parco, a una giornata tra le colline a fotografar la lavanda in fiore.

Esistono poche cose stupende come gli amici e potersi ritrovare, superando la distanza di due continenti differenti, ne è la prova.
Anche se accade dopo tanti anni.

Ci sono persone capaci di intessere legami che vanno oltre la lontananza e la presenza fisica.
Chi ha vissuto lontano da casa, lo sa.
E sa quanto preziose possano essere anche le relazioni che nascono e si nutrono di email, chiacchiere su Skype agli orari più impensabili, chat e fotografie.

Certi amici sono così importanti che riescono persino a distrarti da qualcuno che non riesci a cancellare da dentro e così, mentre cerco di ritrovare un apparente equilibrio in casa, mentre passo l'aspirapolvere, carico tre lavatrici in un pomeriggio, sistemo lavori arretrati sul pc, mi viene da sorridere e da essere riconoscente verso il caso per certi incontri che porterò con me ovunque andrò, senza limiti di lontananza o silenzi momentanei.

L'amicizia è questione di scelte, così come ogni relazione.
Va curata, alimentata e protetta o rischia di appassire in fretta.

La felicità, anche lei, è questione di scelte.
Non esiste una vita perfetta, ma esistono motivi, migliaia di motivi, per scegliere di essere felici.
E questa sera, mentre scrivo al buio con la finestra spalancata su una strada animata da rumori estivi, sento di averne a sufficienza per poter sorridere soddisfatta.



















martedì 13 giugno 2017

Giorno centouno: San Salvario non esiste.

San Salvario non esiste.
Con queste parole inizia una bizzarra passeggiata tra le vie di uno dei quartieri più affascinanti della mia città.
Domenica pomeriggio, cielo umido, l'afa estiva in anticipo sulla tabella di marcia.

San Salvario, il santo, forse non esisterà.
Esisteva però San Salvatore di Campagna a cui era dedicata una chiesetta di zona, nome successivamente storpiato in “San Salvari” in dialetto piemontese.

Ed esiste, di questo ne sono certa, il quartiere che ho percorso per infinite volte, quello che conosco e amo, quello che ancora fa male perché nasconde tra i suoi marciapiedi una ferita non sanata.
La mia ferita aperta ha lo stesso cattivo odore che sale dall'asfalto il giorno dopo la movida del sabato notte, ha il colore consumato dei muri scrostati, si chiama ricordo.
Certi occhi ti restano dentro per un tempo infinito e non esiste rimedio capace di cancellarli.

Nemmeno rimedio omeopatico.

Già, perché tra le tante cose che ho imparato passeggiando disordinatamente insieme ad un gruppo di sconosciuti, c'è questa: in via Cesare Lombroso c'era (e tutt'oggi ne rimane traccia in un edificio abbandonato pieno di calcinacci, targhette recanti i cognomi dei medici e stanze vuote) il primo ospedale omeopatico della storia italiana, un ospedale statale, addirittura, costruito per volere dei Savoia alla fine dell'Ottocento.
Oggi è uno di quegli spazi vuoti destinati ad un lento e inesorabile degrado, ma che sarebbe bello poter recuperare per regalargli una nuova vita.
Proprio di fronte l'antico orfanotrofio israelitico e poche strade più in là la moschea, dove veniamo accolti cordialmente nel giorno delle “moschee aperte”, giorno che coincide con la fine del Ramadan.
Ci tratteniamo una decina di minuti ad ascoltare con piacere uno dei responsabili della moschea.
È un signore dalla barba grigia e dai modi gentili che ci parla dell'Islam e del desiderio di far conoscere quello che accade dentro le moschee agli italiani, perché, in fondo, tante volte si ha paura di qualcosa solo perché non lo si conosce.
Ci invita a fermarci a mangiare insieme a loro per cena: in strada si stanno preparando lunghe tavolate per festeggiare con i vicini di casa la fine del Ramadan, tutti seduti allo stesso tavolo: veli, dialetti del sud, accenti piemontesi, leggins, cani e bambini.
Il canto del Muezzin indica l'inizio della preghiera.
Usciamo dalla moschea e ci dirigiamo verso il cine-teatro Baretti, altro luogo emblematico dove in una piccola sala tutti gli anni, si ripete il rito dei migliori film in circolazione e di interessanti spettacoli teatrali. Ricordo con piacere Rossy De Palma, la “Dama Picasso” e la sua commovente interpretazione del “Romancero gitano” di Lorca.
Ma prima del Baretti, e prima ancora della moschea, San Salvario ci regala la sorpresa di un orto urbano sul tetto di uno studio di architettura.
L'orto sul tetto, oltre a fornire zucchine e peperoni ai condomini, coibenta perfettamente l'edificio regalando un piacevole fresco a chi ci lavora dentro.
E poi di nuovo passeggiando, senza apparente meta, intrufolandoci in palazzi chiusi e sbirciando nelle vite degli altri, inciampiamo nelle figure mostruose scolpite sui palazzi eleganti, scivoliamo sulle pietre d'inciampo disseminate tra i marciapiedi, ci perdiamo senza fretta tra le bancarelle di un divertente mercatino del fumetto dove conosciamo un simpatico signore greco che alla domanda “ Ma tu, cosa vendi?” risponde sornione “ Io vendo la mia anima”! (in realtà si tratta di spillette dalle fogge più disparate).

Una passeggiata stramba, dal gusto lievemente anarchico mi riconsegna la mia San Salvario.
Proseguo, distratta da un uomo di spalle a una finestra aperta al pian terreno (quella nuca! Accidenti! Ho un debole per le nuche ben fatte, soprattutto per quello che me ne ricordano altre che dovrei scordare).

La voce calda del conduttore della nostra camminata è come un programma radiofonico che fa da sfondo ai miei passi, come una radio lasciata a volume basso per farmi compagnia.
Ogni tanto carpisco qualche parola, assorbo dettagli, mi soffermo ad ascoltare aneddoti.
Sorrido.

Mi piace questo andamento inusuale, dove individuo e collettivo si fondono in maniera anomala ma armoniosa.
In fondo sto passeggiando con un gruppo di sconosciuti per il puro gusto di riappropriarmi di uno spazio mio, mio come di chiunque altro.
Non è forse questo uno spunto per ripensare la cultura dal basso?
Un tentativo di recuperare il significato originario della parola "cultura", quello che più si avvicina al "coltivare"?
Cultura come terra che dà buoni frutti, libera finalmente dello sguardo snob ed esclusivo di chi la concepisce come un prodotto per pochi eletti.

Rifletto su questo, cammino e sorrido.

Ma soprattutto mi guardo intorno, guardo in faccia il mio ricordo e forse per la prima volta lo abbraccio, accetto l'impossibilità di cancellarlo, il desiderio che si affievolisca.
Convivere con ciò che non è più, è forse la più grande delle fatiche per me.
Ma in questa domenica dal sapore strambo tutto pare essere al posto giusto: le vetrine dei cingalesi piene di vodka, il Toretto che sputa acqua fresca, l'arabo e il catanese davanti allo stesso portone.

Tutto convive senza troppi drammi, oggi, qui, in questo quartiere che da sempre e nonostante tutto sa accogliere ed esser la casa di tutti.

Oggi San Salvario é anche casa mia.

La casa di tutti.















sabato 10 giugno 2017

Giorno cento: coriandoli a colazione.

Cento giorni fa ho aperto questo blog.
Cento giorni fa cercavo uno spiraglio di luce, un modo per riappropriarmi della bellezza a cui avevo smesso di essere fedele.
Ricordo bene che l'idea di fermare la poesia nascosta di tutti i giorni mi venne in un sabato mattina mentre me ne andavo a zonzo senza meta tra i banchi del mercato più grande d'Europa: Porta Palazzo.
Ero estasiata, ubriaca di colori e di suoni, immersa nello splendore di infiniti stimoli come un biscotto inzuppato nel latte.
E come spesso mi accade quando vago senza fretta come un flaneur innamorato della mia città, ho iniziato a pensare che era un peccato sprecare tutta quella meraviglia, che ci voleva un modo per fermarne almeno un po', un tentativo semplice di raccoglierne qualche granello.

Oggi è il mio primo giorno di vacanza, o per meglio dire, il primo giorno dopo la chiusura della scuola.
In realtà di lavoro ne ho ancora parecchio fino a fine mese, ma lo spirito è già quello di chi è libero da impegni e sente la felicità di riprendersi un po' del suo tempo.
Così me ne torno in uno dei miei luoghi del cuore, quello dove tutto è iniziato, uno di quei posti che devo calpestare, odorare, accarezzare almeno una volta al mese per star bene.

Il mercato di Porta Palazzo è una grande matassa di lingue e colori ingarbugliati, voci africane, contadini piemontesi e meridionali, frutta e verdura come coriandoli di un carnevale quotidiano.
Qui i commercianti arrivano quando ancora è buio per montare i loro banchi, c'è tutto un mondo nascosto che inizia a palpitare di notte e che esplode in un tripudio di rumori, mani veloci -a volte troppo- sul palcoscenico del nuovo giorni, tutti pronti ad interpretare la loro parte migliore per impressionare il pubblico che riempie la piazza fino al tardo pomeriggio.

Poco più in giù, scendendo verso la Dora, la piazza ampia lascia il posto a strette stradine dall'aspetto di un vecchio borgo su cui affacciano condomini bassi e spesso fatiscenti, accanto a facciate fresche di colori nuovi.
Il vecchio, l'abbandono, il degrado e la decadenza qui vanno a braccetto con il nuovo, con la voglia di recupero, con i giovani -e meno giovani- che vogliono fortemente salvare questa parte affascinante piena di storie da raccontare.

Stamattina, in un sabato dal cielo lieve, lo raccontavano anche un gruppo di attori di teatro con il loro spettacolo per strada davanti alla Gelateria Popolare.
Tra le bancarelle dei giovani artigiani e degli indiani coi loro gioielli di pietre dure e stoffe, tra oggetti appartenuti a chissà chi e libri rinvenuti nelle cantine di qualcuno che ormai non c'è più, fiorisce, spumeggiante, una nuova voglia di vivere di nuovo la strada, di restituire dignità a certi angoli della città dotati di rara bellezza e per troppo tempo maltrattati.
Torino sembra essere rinata: lo senti ovunque, lo percepisci dai tavolini sempre pieni di turisti e cittadini che un tempo riposavano come vedove tristi.
Lo senti dal rumore e dalle voci, dai locali nuovi che non smettono di aprire regalando una nuova faccia diversa alla città. Come se qualcuno di ritorno da un lungo viaggio per il mondo portasse con sé ricordi da esporre nelle vetrinette di casa, mischiando l'abituale con l'estraneo, il nuovo con il consueto.

Ogni angolo è visione, movimento e vita.
Ogni istante di questo sabato mattina è ritrovare pezzi sparsi di me, lasciati tra la folla o nel silenzio delle gallerie ombrose, dove vien voglia di fermarsi a sorseggiare un vermuth leggendo il giornale.

Passeggio senza meta, di nuovo, e in questo girovagare pieno di bellezza mi ricongiungo con qualcosa che era andato perduto.
In una mattinata perfetta di inizio estate.













venerdì 9 giugno 2017

Giorno novantanove: l'ultimo giorno di scuola.

L'ultimo giorno di scuola è un giorno molto importante.

In lui convivono sentimenti ed emozioni violente e contrastanti.
L'ultimo giorno di scuola è la leggerezza della libertà colorata come i palloncini che lasciamo volare in alto per salutare i bimbi della quinta, quelli che chiudono un ciclo e aprono un nuovo capitolo della loro vita.
Ma è anche il giorno delle lacrime per qualcosa che finisce,
dei saluti, per qualcuno che non rivedremo per giorni, settimane, mesi.
Per qualcuno che non torneremo ad incontrare.

Il mio ultimo giorno di scuola ha il sapore degli abbracci più veri che mi siano stati concessi dalla vita, degli occhi vivaci che mi salutano in silenzio.

Ha il profumo di una serata che mi fa tornare ventenne, quando si andava a ballare la nostra musica, quando il palco si accendeva di chitarre e batterie, quando si fumava di nascosto e se si veniva scoperti si diceva che i vestiti puzzavano perché gli amici fumavano.

Il mio ultimo giorno di scuola sa di birra e occhi giovani, ha il sorriso di un semi- sconosciuto incontrato per caso in un viaggio verso Roma e che oggi canta su un palco, ha la voglia di una risata e di un abbraccio nuovo, di qualcuno che non c'è, che non esiste, ma di cui mi pare di poter immaginare il profilo e l'odore.

Il mio ultimo giorno di scuola è un po' nostalgico e un po' felice.
Sono stanca, anzi, sono distrutta, ma domani la mia sveglia suonerà più tardi e da lunedì le lezioni saranno finite, sarò più libera e avrò più tempo per me.

Vorrei che certe notti d'estate non finissero, perché è qui che si nasconde, assopito tra le strade vuote delle periferia, il segreto vero della felicità: il tempo passa e tu ti senti sempre uguale, come se la cosa non ti riguardasse, come se davvero fosse incredibile che la gente continua a nascere dopo di te, come se, quando ti chiamano "signora"stessero parlando ad un'altra.

L'ultimo giorno di scuola, quest'anno, ho cancellato un numero che non devo più vedere e ho aperto uno spiraglio verso qualcosa di nuovo.

Perché vorrei che finalmente fosse l'ultimo giorno di qualcosa che ormai non ha più senso di esistere e soprattutto, il primo di qualcosa di diverso.

Non so se tutto questo abbia un senso, non so se la vita mi darà una nuova possibilità, ma mi piace pensare che tornerà l'estate anche per il mio cuore anestetizzato, inebetito da un anno di dolore, mi piace sperare che la prossima notte stellata sarà per me e per un paio di occhi nuovi.




sabato 3 giugno 2017

Giorno novantotto: quando il pavone fa la ruota.

Il pavone fa la ruota per impressionare la femmina sfoderando tutto la sua colorata bellezza, durante il periodo degli accoppiamenti.
Oppure per spaventare un altro animale dal quale vuole difendersi.

Le persone, più o meno, fanno la stessa identica cosa.
Non tutte le persone, ovviamente.

C'è chi di motivi per pavoneggiarsi ne ha davvero pochi, eppure la sua coda la apre eccome, mostrando orgogliosamente anche qualcosa che non ha.
E incredibilmente funzione: funziona che ciò che fai vedere, anche se non c'è, lo vedono anche gli altri.

Poi, invece, ci sono quelli che nascono pavoni, ma si credono tacchini.

Credersi tacchino, anche quando si ha un corredo di penne multicolore significa avere una vita piuttosto difficile.
Fortunatamente, però, a volte succede che per qualche strana coincidenza della vita ti ricordi di averle quelle penne.
Improvvisamente ti ricordi che anche tu possiedi qualcosa di bello, ma sei talmente abituata a tenerlo così nascosto che nemmeno ci credi più.

Succede quando qualcuno ti dice che i tuoi sono gli abbracci migliori che abbia mai provato o che le tue gambe sono più belle di quelle di una ventenne. Succede quando un tuo alunno ti chiede scusa per averti fatto arrabbiare perché tu sei la maestra più brava che si possa desiderare, o ancora, che le tue foto raccontano bene il sentimento di certi luoghi.

Accade, ma solo per quale istante.

Succede, sì: solo che tu sei un tacchino e allora nemmeno ti viene da farla una ruota, al massimo una ruotina che dura sì e no cinque minuti e poi ti dimentichi di nuovo di avere un motivo per sentirti felice di come sei.
Non per vantarti, per carità, che la gente vanitosa non l'hai mai sopportata.
Ma almeno per sentirti soddisfatta di quello che sei, per smettere di sentirti inadeguata e mai all'altezza delle situazioni.

Pensavo a questa stramba teoria del tacchino e del pavone ieri, mentre me la vagavo con qualche amico per le vie della città, in una zona poco battuta e semideserta per via del giorno festivo.
D'un tratto, svoltato un angolo, sul muro di un palazzo appare questo murales meraviglioso raffigurante, appunto, un pavone.

Ci sono giorno, come questi, in cui certe nostalgie riaffiorano lievi, complici ricorrenze che non vorresti ricordare e allora ti trovi a chiederti il perché, invece di perde tempo nel tuo stato di tacchino che si sottostima, non inizi a fare la ruota anche tu, ogni tanto.
Una ruota rapida, per carità, una cosa da poco, giusto il tempo necessario a ricordarti che la tua bellezza, quella vera che in pochi sanno vedere, è una cosa preziosa che non va sprecata con chi non merita di assaporarla o con chi l'ha vista, l'ha catturata, ma per paura ha preferito girarsi dall'altra parte senza tuttavia lasciarti libera di andare avanti per la tua strada.

Oggi va così.

Perché aprire un blog tentando di catturare la poesia del quotidiano, cercare di celebrare la bellezza delle cose semplici ed entusiasmarsi per i dettagli inattesi mica significa esser ciechi, mica vuol dire diventare degli ottimisti ottusi: la vita certi giorni è davvero dura e io non ho mai detto il contrario.
Ma in fondo c'è sempre un buon motivo per coglierne anche la meraviglia, quella più nascosta.
A guardar bene c'è sempre una ragione valida per innamorarsi delle nostre esistenze, c'è sempre un motivo per esibire sorridendo le penne colorate che ognuno di noi nasconde dentro di sé.
E quel murales incontrato per caso, stava lì a guardarmi per ricordarmelo.