martedì 28 febbraio 2017

Giorno ventisei: il linguaggio segreto dei segni.

Quando metto piede in un posto nuovo, più di qualsiasi altra cosa, amo crearmi un mio personale percorso di scoperta di quel luogo che sia però lontano dalla logica del giro turistico più classico.
Mi piace assaporare con lentezza i ritmi di quell'angolo di mondo sconosciuto, fingendo di essere un suo abitante e quindi camminare moltissimo per le strade mischiandomi alla gente, perder tempo nei bar osservando gli avventori, andare a rovistare tra i tesori dei mercati delle pulci, mangiare in ristoranti con i menù scritti in una sola lingua (in alcuni casi sperando di essere in compagnia di amici del posto!)
In questi miei giri che seguono la mappa delle mie banalissime passioni, cerco di non programmare troppo le varie tappe, ma lascio che a guidarmi sia un po' il susseguirsi stesso degli eventi, prestando un' attenzione -quasi maniacale- ai piccoli segni che, inevitabilmente, troverò durante la mia esplorazione.

Perché so già che li troverò, come sempre.
Non è difficile, io credo che succeda a chiunque, solo che non tutti ci fanno caso.

Da sempre, ho una sorta di magnetismo nel trovare sul mio cammino piccole sorprese che sembrano parlarmi e darmi conferma del fatto che sì, sto andando nella direzione migliore.
Si tratta di oggetti, spesso dimenticati o abbandonati, di dettagli, di angoli che ai più possono forse risultare insignificanti, ma che nel mio privato abecedario sentimentale hanno una loro precisa collocazione.

Così accade di incappare in un guanto perduto, in biglietti scritti a mano con numeri di telefono o liste della spesa, in murales bizzarri, in monete, anelli, manifesti di film e via dicendo, tutti con qualcosa da dirmi.

Oggi, passeggiando con una guida speciale tra le vie di un quartiere piuttosto singolare e molto affascinante, è stata una sorpresa dopo l'altra: un murales che parla da sé, una colorata pubblicità di un bar disegnata sul marciapiede, una carta da dieci di cuori, carta che incita a proseguire sulla propria strada perché si sta andando verso la felicità e simboleggia un momento di transizione.

Così cammino, osservo, mi entusiasmo per i cieli nuovi, per gli occhi di ghiaccio, per i dettagli che mi sembra vogliano parlarmi. E in questo continuo stupore il viaggio prende forma caricandosi di significati tutti da interpretare.

In fondo credo davvero che il cosmo ci parli: basta solo aver la curiosità di ascoltarlo e la leggerezza necessaria per continuare a stupirsi di questa piccola magia.






Giorno venticinque: un viaggio per due.

Viaggiare è per me la cura migliore contro ogni malinconia,
la sola medicina alternativa di sicuro successo,
il mio chiodo fisso,
il mio porto sicuro,
l'amore eterno.

Se sapessi che mi resta poco tempo da vivere lo passerei Altrove: valigia, amici, macchina fotografica e giornate a camminare in mezzo a facce mai viste prima, marciapiedi mai calpestati, cieli ancora da annusare.

Pare che il desiderio incessante di viaggiare sia una malattia, la chiamano sindrome di Wanderlust.
Se davvero fosse così, sarei sicura di esserne affetta.

Non riesco a risalire esattamente al momento in cui l'ho contratta, ma probabilmente il virus, di quelli resistenti agli anni e alla vita, si è insinuato dentro una me bambina innamorata del paesaggio mutevole fuori dal finestrino durante i brevi tragitti città-campagna della domenica, o forse più tardi, quando in Agosto si svolgeva il rito infinito del viaggio verso Roma e una volta arrivati in Toscana, i cespugli di oleandri bianchi e rosa danzando nel vento ai bordi dell'autostrada, annunciavano che il mare era finalmente vicino.
Credo sia successo in quel contesto di restare vittima del fascino inusuale degli Autogrill, di sognare che da grande avrei voluto fare la casellante per stare sempre in mezzo a chi parte, a chi si muove, a chi macina chilometri verso chissà dove.

Poi, più avanti, le cose sono peggiorate: avere una delle tue migliori amiche a ottocento chilometri da casa è un'ottima scusa per passare interminabili giornate su un treno pieno di gente. C'era chi ti offriva un panino ripieno di pomodori secchi e melanzane, i ragazzi che tornavano a casa per le vacanze, le famiglie cariche di bagagli come se fosse un trasloco che attraversa lo Stivale.
I treni sono la mia dimensione. Vanno alla velocità giusta per fare amicizia, dormire, ascoltare musica guardando fuori dal finestrino, mangiare per ingannare l'attesa dell'arrivo, fare le parole crociate, leggere un libro. I treni vanno sufficientemente piano per farti conoscere qualcuno, forse anche per innamorarti e per immaginare cosa nasconde lo sconosciuto che ti siede di fronte, com'è la sua vita, dove starà andando. Le vecchie stazioni sono covi di sogni e storie dimenticate.
Credo che nulla come il viaggio lento sui binari mi abbia insegnato ad osservare e anche a vivere nell'attesa della continua partenza.

Ai viaggi verso i pini marittimi e le case dalle facciate color zucca, ai cieli di Roma, piano piano si sono andati aggiungendo altri cieli, altri biglietti, altre facce.
Ci sono stati periodi felici della mia vita in cui appena potevo compravo un biglietto e appena tornata a casa pensavo già a un nuovo viaggio.

Qualche giorno fa, valigia preparata con mia grande sorpresa - questo è l'unico aspetto legato al viaggiare che detesto con tutta me stessa!- in pochissimo tempo e biglietto low cost comprato con sei mesi di anticipo, mi sono fatta un bel regalo: un viaggio con una delle mie migliori amiche.
Erano anni che non viaggiavamo insieme, da sole.
Così è stato tutto un riscoprire la complicità che ti lega a qualcuno, soprattutto a qualcuno con cui hai condiviso pezzi di strada così importanti come è accaduto a noi negli anni.
La nostra amicizia, nata sui banchi di scuola, si è cresciuta proprio viaggiando: vacanze, Erasmus, esperienze di lavoro all'estero. Credo che niente come la condivisione di un angolo nuovo di mondo possa consolidare il rapporto tra due persone. Ed ecco che una situazione poco agevole come quella di dover prendere macchina, treno, autobus e aereo prima di arrivare a destinazione, diventa non solo piacevole, ma addirittura un viaggio nel viaggio.
Ecco che le risate, i commenti sugli sconosciuti, scovare una panetteria in una città che non si conosce, gli aneddoti che riaffiorano nell'attesa di partire, il privilegio di potersi capire senza nemmeno parlarsi, diventato da soli motivo di felicità.

Forse iniziamo il viaggio molto prima di salire su un mezzo che ci porterà a destinazione, forse dentro di noi già accorciamo distanze più grandi dei chilometri che percorreremo nel giro di qualche ora.
Questo è stato per me, qualche giorno fa, il motivo per cui sorridere: un viaggio nel viaggio.



venerdì 24 febbraio 2017

Giorno ventiquattro: l'ultima bugia.

Quando si lavora coi bambini la tua vita cambia.
Sembrerà un luogo comune, eppure è una verità assoluta. Nemmeno io ci credevo, prima di iniziare.

Ricordo che il primo giorno che entrai in classe la sensazione che mi arrivò, fortissima e immediata, fu di totale smarrimento dinnanzi a quei trentasei occhi spalancati che mi guardavano pieni di curiosità e timore.
Da lì in avanti fu un crescendo di darsi e chiedersi reciprocamente fiducia, un bellissimo, ma altrettanto faticoso provare, sbagliare, cambiare, riprovare, andar per tentativi.
Ogni giorno è diverso dal precedente con loro: entri in classe e non sai mai cosa potrà succedere, cosa ti vorranno chiedere, di cosa vorranno raccontarti. A volte arriva una leggerezza inattesa, soprattutto quando uno di loro corre da te a confidarsi o a parlarti di quanto gli manchi il padre spesso via per lavoro, dei suoi sentimenti non corrisposti da un'amica, di come sia difficile non vedere più i nonni lavorare nell'orto di fronte a casa. Altri giorni sento di sbagliare tutto, di dover ricominciare percorrendo nuove strade, sperimentando, rimettendo tutto in discussione.
L'equilibrio è molto labile e in continuo cambiamento, com'è ovvio che sia: stare insieme ogni giorno significa conoscersi, crescere, scambiarsi parti di noi, regalarsi agli altri.

Quando si lavora coi bambini, dicevo quattordici righe fa -che poi non so perché, ma le parole si inseriscono quasi da sole, senza che io possa controllarle tra l'inizio di un pensiero e la sua fine!-la tua vita cambia.

Improvvisamente ricordi quanto sia bello osservare le stagioni che cambiano colore, apprezzi la musica di una poesia semplice, ti diverti a creare con dei fogli recuperati da un cestino mondi immaginari su un cartoncino verde.
Le ore volano, i giorni anche.
Mai prima di iniziare a lavorare con loro mi era parso che le settimane durassero poche ore e i mesi una settimana, al massimo.
E così, riprendi anche a giocare, a ridere di te, a goderti le Feste che si susseguono e che avevi smesso di notare da anni.
Il Carnevale, ad esempio: io mica l'ho mai apprezzato come adesso. Nemmeno quando ero piccola.
In realtà mi piaceva moltissimo quel costume da fata Turchina che mi aveva cucito mamma, anche la bacchetta magica dorata e in cappello azzurro a cono con le stelline argentate. Quello che mi metteva tristezza, però, era lo sfilare dei carri sul corso vicino casa, non so bene perché e soprattutto il sapore di un pomeriggio celeste slavato di fine metà febbraio, quando le giornate si spengono ancora troppo presto nel buio e nel freddo.

I miei bambini, invece, mi hanno ricordato quanto possa essere affascinante inventarsi un costume con due pezzi di stoffa trovati in classe e poi correre in giardino per quasi due ore, soffiarsi addosso le stelle filanti - e poi soffiarle tutti insieme sulla maestra!-, auscultare la povera malcapitata con un vero strumento medico per poi affermare preoccupati: "Maestra, hai il cuore che batte troppo forte, devi essere innamorata!", non sentire mai freddo nemmeno quando è ancora inverno.

Così, dopo questo pomeriggio speciale, me ne torno a casa leggera. I piedi tra i coriandoli sembrano aver voglia di danzare. Attraverso il parco ripensando a quanto sia bello avere la fortuna di un lavoro che ci piace e una volta chiusa la porta bianca, mi siedo sul divano a mangiare la mia ultima bugia di questo Carnevale che, per conservare la magia, ha la forma di un cuore.







giovedì 23 febbraio 2017

Giorno ventitré: il primo appuntamento

Non so sia una peculiarità tutta mia o se succeda a chiunque, ma spesso, molto spesso, mi capita passeggiando, andando a lavoro o uscendo a cena con un amico, di incontrare due persone al loro primo appuntamento.

Come ci si accorge che si tratta di uno dei primi incontri? Piuttosto semplice: osservando con attenzione.

Ho sempre adorato osservare gli altri, sin da piccola.
Le vite altrui ci appaiono più belle, più perfette. I visi degli sconosciuti che incrocio sull'autobus o camminando per strada li potrei ricordare dopo anni a un secondo eventuale fortuito incontro: mi è successo svariate volte e sempre mi sorprende questa mia capacità, soprattutto se la paragono alla mia memoria zoppicante e poco efficiente.
Così, osservare gli altri è diventata presto un'abitudine piuttosto naturale. Non si tratta di curiosità fine a se stessa è piuttosto un'attrazione irrefrenabile verso lo sconosciuto, un richiamo al quale non so resistere.
Quando guardare, cercare i dettagli nei corpi e sui visi altrui, registrare con lo sguardo i gesti impercettibili che ognuno di noi fa, senza nemmeno rendersene conto o ancora percepire l'intonazione unica della voce diventa un piacere naturale, allora non è molto difficile accorgersi in che relazione stanno due persone.
Mi accade spesso di intuire i legami tra sconosciuti molto prima di averne conferma e raramente l'intuizione, che poi è solo capacità di scorgere messaggi segreti, sbaglia.

Oggi tornando a casa dal lavoro ho incrociato una giovane coppia: lei capelli lunghi castani, occhi timidi e voce bassa, lui sguardo volitivo e corporatura slanciata. Camminavano mantenendo tra loro una lieve distanza, la distanza tipica di chi se ne sta ancora nel proprio spazio privato e si inizia ad aprire -non senza resistenze, anche quando qualcuno ci piace- verso l'altro. Non solo la distanza tra i corpi rivelava che era una delle prima uscite, ma anche gli sguardi che non inciampavano mai nella distrazione di qualcuno che passava accanto e ancor meno sullo schermo dello smartphone.

La distanza, gli sguardi e il saper ascoltare.

Le primissime volte che si esce con qualcuno che ci piace, si sa, indossiamo la nostra versione migliore e il saper ascoltare l'altro è uno dei trucchi di maggior successo che abbiamo a nostra disposizione. In realtà non credo nemmeno che si tratti di qualcosa di consapevole. Semplicemente all'inizio, quando ogni cosa è ancora nuova, integra, da scoprire, siamo totalmente ammaliati da questa persona che fino a ieri nemmeno esisteva nelle nostre vite e che improvvisamente arriva a riempirci di curiosità e devoto stupore.
Eccoli lì i due ragazzi al primo appuntamento: lui non perde per un attimo l'attenzione, la ascolta affascinato, interviene, ride e commenta. Lei è evidentemente imbarazzata, ma di quell'imbarazzo bello che solo gli inizi di qualcosa che ci piace sanno regalare. Anche lei lo ascolta e lo guarda negli occhi, seppur per pochissimi secondi, quando lui interviene. Poi abbassa lo sguardo e sorride.

Li incrocio e sorrido anche io, sicura che non si siano accorti di nulla così immersi nella perfetta sospensione del loro primo incontro, quando ogni cosa intorno a noi perde la sua consistenza, le persone diventano invisibili, i rumori muti.

Sorrido a loro e sorrido a me, pensando che sempre, dopo ogni fine ci ripromettiamo che sarà l'ultima.

Poi, però, arriva una nuova prima volta, un nuovo primo appuntamento e che la voce, le mani, le parole e l'imbarazzo saranno diversi.
Però la distanza, gli sguardi, il saper ascoltare, quelli torneranno sempre uguali a ripetersi nell'incessante rituale dell'avvicinarsi tra due ex sconosciuti.















mercoledì 22 febbraio 2017

Giorno ventidue: home is where your (white) heart is.

Reduce da una giornata infinita, finalmente mi concedo il lusso di sedermi a scrivere.

A parte i gatti sotto al divano che continuano a trovare mille maniere fantasiose per distruggere ciò che ancora resta di lui, tutto intorno è silenzio.
Solo il lieve lamento del frigo a tenermi compagnia e il fiato del gas, dove l'acqua per la tisana sta per bollire.

Casa mia è un minuscolo nido, un tempio sacro e privato senza troppe pretese, ma con molta personalità. O almeno, così dicono.
Ho sempre considerato una priorità e un privilegio avere una casa che ci assomigli e forse a forza di sederci sui suoi pavimenti, di dormire tra le sue lenzuola e di mangiare sulla sua tavola, finiamo anche noi per assomigliarle (un po' come quella storia del cane che assomiglia al padrone o forse al contrario, non ricordo esattamente!)

La mia casa è piccola, prevalentemente bianca: qua e là macchie sparse di colori tenui, tanti libri e foto, molte delle quali attendono ancora di essere appese. Ci sono lettere e disegni attaccati al frigo accanto a numerosi magneti che scelgo con una cura ossessiva cercando di evitare come la peste l'effetto souvenir, cartoline in bianco e nero, parole e numeri sparsi un po' ovunque, vecchie macchine fotografiche da quattro soldi, matrioske, tante matrioske.

Mi piace, parecchio.
Certo, non è esattamente quello che sognavo, ma si avvicina molto all'idea di casa che avevo in mente.

Quando ci sono entrata a vivere è stato divertente ascoltare i commenti di amici e conoscenti.
Qualcuno mi ha detto che casa mia profumava di Ikea - e questo per me è un complimento, badate bene!- altri che era "troppo bianca" e che avendo all'epoca un famoso copripiumone, ovviamente bianco, con le lettere dell'alfabeto nere stampate sopra "sembra di stare allo stadio della Juve quando dormi qui!" che detto da un torinista è un palese insulto. C'è poi chi ha affermato che " è troppo curata nei dettagli, mi mette l'ansia!", o ancora "ci sono troppi cuori, non potevi che viverci tu!". Insomma, devo dire che è una casa che ha riscosso grande successo tra le donne e pochissimo tra gli esponenti del genere maschile, fatta eccezione per un caro amico il cui senso estetico è molto affine al mio e con il quale ho potuto brindare con soddisfazione alla mia Casa Bianca!
Dopo lungo riflettere ho concluso che il primo uomo che la saprà realmente apprezzare in tutta la sua bianca piccolezza, sarà quello giusto per me!

A casa mia mancano poche cose, devo essere sincera e sono anche convinta che nella prossima ci saranno tutte. Per ora ciò che mi manca è un terrazzo che vorrei convertire nell'estensione dell' interno durante i mesi più caldi e qualche grossa e luminosa finestra che mi permetta di avere delle piante a farmi compagnia.

Tuttavia ciò che ho è sicuramente più importante: amo la sensazione di rintanarmi in un luogo che mi assomiglia in tutto il suo eccessivo biancore e con il suo troppo cuore. Bella, così, nelle sue imperfezioni infinite.





martedì 21 febbraio 2017

Giorno ventuno: la cartoleria.

Stamattina a scuola abbiamo iniziato ad affrontare il genere narrativo della fiaba. Come spesso succede in questi casi, i bimbi fanno a gara per raccontare tutto ciò che sanno sull'argomento e così, in pochi minuti, abbiamo ripercorso in un excursus convulso e piuttosto strampalato, la maggior parte delle grandi fiabe che tutti conosciamo.
Ad un certo punto, però, ci siamo fermati a riflettere sul significato del "finale felice". 
Ci tengo sempre a introdurre un po' di "scompiglio" nelle teste dei miei alunni, mi piace rovesciare insieme a loro quelle che sono le idee più ovvie che da sempre ci vengono messe in testa, sin da quando siamo piccoli.  Mi piace farlo non per portare confusione o per oppormi a qualcosa che non condivido, ma perché credo che abituarsi a pensare con la propria testa sia una questione di allenamento e che non sia mai troppo presto per iniziare. Il lavoro del "sabotatore di normalità" è qualcosa di estremamente faticoso e affascinante allo stesso tempo: i bimbi sono dei filosofi, arrivano dove noi non siamo più in grado di scorger nulla perché ancora liberi da certe sovrastrutture e imposizioni. 
Così, nel gran calderone del dialogo di classe - attività alquanto complessa da gestire, visti gli innumerevoli tentativi di parlare senza ascoltare gli altri, non rispettare il turno di parola a via dicendo- sono emerse vere perle di saggezza infantile. Una bambina mi ha detto che il finale felice "non è per forza quello in cui due persone si sposano, perché a volte può essere molto più felice il fatto che due persone divorzino, se hanno sbagliato a scegliere con chi sposarsi", qualcun altro ha affermato che "il finale felice è quando la principessa si salva da sola, senza aspettare che arrivi il principe a farlo". Tutte considerazioni che condivido e che mi rendono orgogliosa dei miei pupi, ma ciò che più mi ha colpito è stato : " Per me il finale felice è quando siamo capaci di trovare la felicità in noi, non aspettando che ce la dia un altro". Ecco che in quel momento esatto ho sentito che tutta la fatica di certi giorni in cui ti sembra di non essere all'altezza del tuo ruolo, che la disillusione, l'inevitabile scoramento di alcune situazioni , veniva cancellato come per magia, da poche parole semplici, ma incredibilmente rivelatrici. 

Hanno otto anni e ogni giorno sanno insegnarmi molto di più di ciò che io provo a insegnare loro. 

La giornata è scivolata veloce con questo pensiero fisso, me lo sono appuntato al cuore, come un promemoria e mentre dopo cinque ore a scuola e due di riunione me ne tornavo a casa esausta, ho pensato alle centinaia di cose che mi rendono banalmente felice. Tra queste, una piccola abitudine ridicola: quella di comprarmi qualcosa e per assaporare il senso di "regalo", farmelo impacchettare per poterlo aprire una volta a casa. Sì, forse non è una cosa da persona normale, ma come i miei bambini mi insegnano "la normalità non esiste, maestra!". Ecco allora che entro in una meravigliosa cartoleria - uno dei pochi luoghi, insieme alle librerie, in grado di riconciliarmi con il mondo intero!- e inizio a vagare in un microcosmo fatto di matite, penne, libri illustrati e carta da lettere. 
Il profumo delle cartolerie è in grado di riportarmi in un secondo alla mia infanzia, quando a volte, con mamma andavo a scegliermi un piccolo regalo in quella vicino casa. Il cartolaio era felice quando ci vedeva arrivare: a sua detta ero l'unica bambina della zona a comprare libri. 
Insomma, inizia il mio vagabondare incantato tra gli scaffali e vorrei comprare di tutto!
Dopo un po' inizio a fare selezione: il libro illustrato su Frida è meraviglioso, ma costa troppo, le collane fatte a mano con le ragazzine in bici anche. Ripiego su un quadernetto che finirà insieme agli altri sette in attesa di essere usati (consumo quadernetti con una fame esagerata, li porto sempre con me in borsa per annotare pensieri o idee durante il giorno: Tiger è il mio principale fornitore di inutili meraviglie!) e un libro illustrato. Tra tutti quanti lui mi ha incuriosita, mi ha chiamata, come solo i libri sanno fare con il loro silenzioso canto di sirene: lo sfoglio un po', ma non troppo per non perdere la sorpresa della storia quando la leggerò, mi piacciono le sue illustrazioni e il titolo. Lo prendo in mano, accarezzo la copertina e decido di comprarlo. Così me lo faccio impacchettare e godo come una bambina nel vedere che la commessa sceglie per me una carta rossa a pois: immenso piacere per i miei occhi! Metto tutto in borsa e me ne torno a casa camminando felice: una lunga camminata di quaranta minuti mi separa da casa, dal momento in cui seduta sul divano scarterò quei miei piccoli tesori. 

Ecco, per oggi anche io ho trovato il mio finale felice!




lunedì 20 febbraio 2017

Giorno venti: una cena salvagente.

E così succede che certi giorni sembrino infiniti, ingarbugliati, insensati, superflui.

Succede che ci si riempia la giornata di miliardi di cose da fare pur di non pensare.
Succede che ci si obblighi a rispettare gli impegni presi, anche quando non se ne ha voglia.

E a volte questo può essere un bene, come questa sera.

Dopo il consueto appuntamento del lunedì sera con il teatro, una cena improvvisata, tutta al femminile, mi risolleva lo spirito come solo l'affetto e la vicinanza delle amiche sono in grado di fare.
Si parla sempre della competizione tra donne, dell'invidia, ma troppo spesso si ignora quanto la solidarietà, il sostengo e il calore che possono nascere tra donne siano una vera e propria salvezza.

Succede raramente, ma succede, che nelle amicizie, così come in amore, ci si senta affini a una persona sconosciuta che immediatamente -e senza un apparente motivo- ci appare a noi vicina.
Ecco, con le mie commensali è andata esattamente così sin dalla prima sera in cui ci siamo conosciute.
In fondo ogni legame è basato sul riconoscersi nell'altro e anche in questo caso, le sensazioni si sono confermate esatte.

Tra birra, risate, chiacchiere e dessert i pensieri peggiori affogano lentamente, evaporano come per magia.
Ci salutiamo pensando già a un prossimo sabato mattina tra mercati e colazioni al bar.

Così la serata che si prospettava una pesantissima appendice di una giornata già di suo piuttosto "complicata", prende inaspettatamente un'altra piega e mi ritrovo a sorridere mentre rientro in macchina per tornare a casa, grata al caso per avermi salvata con un' inaspettata cena salvagente!









Giorno diciannove: la favola della donna di burro e dell'uomo di ghiaccio.

Oggi voglio raccontarvi una storia.

C'erano una volta un uomo di ghiaccio e una donna di burro.

I due vivevano indisturbati: il primo la sua vita di imperturbabile e glaciale quotidianità, l'altra nel costante vizio di sciogliersi ogni qualvolta che una fiamma le si avvicinava troppo. Un giorno il caso volle farli incontrare e così, in un pomeriggio di inizio giugno, maglione verde e ombrello in mano lui, maglietta marinara e zainetto rosso lei, finirono per sfiorarsi. Ecco che da quell'incontro scaturì qualcosa che non è possibile definire con alcun tipo di etichetta.
Passarono i giorni, le settimane, i mesi. Il legame cresceva e insieme si spezzava. I due, chiaramente incompatibili, ma al contempo incredibilmente uniti da qualcosa di inspiegabile e sicuramente vissuto in maniera diversa da ciascuno di loro, si avvicinavano per poi allontanarsi. Si facevano la guerra e poi si accarezzavano, passavano le ore a fuggire per poi rincorrersi, un po' nel tentativo di salvare loro stessi, un po' nel desiderio di non perder l'altro.
Tutto era molto strambo, senza capo né coda.
C'era confusione, c'era paura, c'era qualcosa di poco sano e qualcosa di fragile da proteggere.
C'erano le tazze di caffè che si raffreddava vicino al letto, c'erano le lacrime di incomprensione, c'erano le mattine in cui poche parole che si accendevano sullo schermo riempivano i vuoti costruiti la sera prima, c'erano i silenzi gonfi di parole. C'erano i baci sulla nuca, c'erano i colpi bassi inferti con leggerezza, c'erano le mani intrecciate sotto al lenzuolo per non scivolare via nel sonno. C'erano i film mai visti fino in fondo, c'era la certezza che era tutto senza futuro e forse anche senza presente.

C'era tanto, tantissimo e a volte niente, un niente infinito.

Faceva male e la donna di burro sentiva che si stava inevitabilmente sciogliendo, ogni giorno un po' di più.
Ma non voleva smettere.
Non voleva e solo lei sapeva il perché. E nemmeno l'uomo di ghiaccio, che poco per volta iniziava a sciogliersi anche lui, voleva smettere e solo lui sapeva il perché.
Nessuno poteva capirlo, nessuno poteva capirli, anche se in molti giudicavano, semplificavano. Anche se in tanti sembravano avere la soluzione riducendo tutto a poche banali definizioni, ritornelli ascoltati troppe volte.
La donna di burro si diceva che prima o poi avrebbe detto basta e quando quel giorno arrivò, non fu realmente lei a deciderlo e in fondo nemmeno lui, fu piuttosto il caso, fu la vita, come spesso succede, fu la non scelta perenne.

Quell'ultima serata che passarono insieme le donna di burro tacque tutte le parole che avrebbe voluto dire perché di parole se n'erano spese tante ed ormai era stanca. Lui fece lo stesso, forse per la medesima ragione. Eppure dai loro occhi qualcos'altro parlò per loro.
E la ragione per essere felici, in tutto questo, dov'è? Sembrerebbe una storia triste, ma a guardar meglio non lo è affatto.
A volte per capire certi misteri non possiamo far altro che passarci in mezzo. Inutile aggirarli, inutile ignorare quello che davvero siamo, inutile fingere che agiremo come agirebbero gli altri.

Quella sera, mentre cenavano insieme e più tardi, poi, sul divano bianco, la donna di burro capì che non avrebbe avuto altra scelta se non quella di viversela fino in fondo, così come aveva fatto.
Capì che quel suo lento liquefarsi era finito. In quel preciso momento, per la prima volta, ebbe chiarissimo davanti a sé che mai più avrebbe concesso a nessuno di tenerla così in sospeso, che mai più avrebbe accettato il compromesso di qualcosa di indefinito che non era ciò che realmente desiderava. Capì che le relazioni devono aggiungere e non togliere, che le cose troppo complicate l'avevano ormai stufata, che non c'era più spazio per chi teme la scelta, per chi non vuole rischiare, per chi dice di non sentire, ma non è in grado di fare un passo indietro. E l'uomo di ghiaccio, forse per la prima volta, si stupì di quella nuova consapevolezza che le lesse in viso, si sorprese che lei non stesse piangendo e di quanto fu determinata nel salutarlo, senza tornare sui suoi passi.

Realmente pensate che capire una cosa del genere non sia motivo di felicità?

La donna di burro sentì che smetteva di essere di burro e iniziava a diventare un po' più solida. Sentì che niente l'avrebbe più sciolta in quel modo, che nessun fuoco le avrebbe più fatto perdere la sua forma.

Quella era la sua promessa, per la prima volta, realmente sentita dentro di sé.

Chiuse la porta e nella malinconia di quel saluto, nell'amarezza di qualcuno che ci lascia, intravide anche i passi di qualcuno di nuovo che arrivava e così un addio diventò anche un benvenuto alla nuova Lei.


https://www.youtube.com/watch?v=NcEZEWeNTOY



sabato 18 febbraio 2017

Giorno diciotto:torta di carote e caffè americano.

Ognuno di noi colleziona nella propria preziosa raccolta di ricordi privati, un oggetto, un profumo, un sapore in grado di riportarlo in un solo istante indietro nel tempo, proprio come la famosa Madeleine di Proust.

Per me la torta di carote ha questo magico potere.

Così succede che mentre passo un pomeriggio di confidenze e risate con una cara amica, decido di ordinare una bella fetta di questo dolce e un caffè americano. Ebbene sì, perché io, da italiana piuttosto atipica quale sono, amo anche quello. 
Forse è solo una reazione ai tanti viaggi all'estero o al fatto che quando ti succede di vivere fuori da qui per qualche anno, non solo ti ci abitui, ma addirittura arrivi ad apprezzarlo. Questo miracolo accade quando smetti di ricercare in lui un' imitazione o un sostituto dell'espresso. Credo che in fondo questo sia il segreto per amare non solo il caffè americano, ma anche una persona nuova che arriva nella nostra vita, un lavoro diverso, un luogo dove non eravamo ancora stati: smettere di cercare in lui un surrogato di ciò che abbiamo perso.
La torta di carote, dolcissima, ma meravigliosa si sposa bene con un caffè amaro lungo e caldo. Ma la sua versione migliore, quella che ricordo con commozione, è quella accompagnata da un gin tonic.
Sì, avete capito bene: torta di carote e gin tonic, la merenda del sabato pomeriggio d'inverno nella mia Madrid.

Ogni forchettata che sa di glassa, uva passa e carote porta con sé il colore blu del cielo su Malasaña, mi restituisce il rumore dei vicoli traboccanti di passi, il freddo tra la folla della Gran Vía, i pomeriggi al Lolina Vintage quando tutto era ancora nuovo, vergine, da scoprire e da vivere.
Nel mio anno a Madrid, il mio regno del tutto è possibile, ogni angolo mi regalava l'entusiasmo di un pacco ancora da scartare e così, oggi, a distanza di quattro anni, quell'ininterrotta scarica di vita non smette di percorrermi tutte le volte che torno a pensare a quei giorni.
Ci sono luoghi che sanno di casa dal primo istante in cui ci arrivi, ci sono strade che ti abbracciano come fossi un figlio nato su quei marciapiedi e la sensazione di appartenenza che alcuni posti ti trasmettono, così, forte ed istantanea è qualcosa di inspiegabile ed ammaliante.
Ancora oggi so che un giorno tornerò, perché sento -e non so spiegarmelo- fortemente di appartenere a quei saliscendi che non ti aspetti, perché il suono di quella lingua che non è la mia, mi fa vibrare come nessun'altra musica, perché le notti che non finiscono mai mettono allegria anche quando sei a casa a godertele dietro i vetri, perché il silenzio sacro che lascia spazio alla vita che si accende sulla Calle Mayor, tra i tavolini della Mallorquina, alle sette di un lunedì mattina qualsiasi è quanto di più luminoso si possa immaginare. 
Perché è bastato il profumo di una torta alle carote per restituirmi la me migliore che tra le vie di Madrid ho incontrato per la prima volta.




venerdì 17 febbraio 2017

Giorno diciassette: un regalo lento.

Sono giorni che non faccio altro che pensare al fatto che salirei su un treno o un su un aereo per andare ovunque. 
Siamo a metà febbraio, metà anno scolastico, quasi fine inverno. La fatica inizia ad avvertirsi: tutte le tensioni si concentrano sul collo, le ore di sonno non sono mai abbastanza, la pelle invoca qualche raggio di sole.
Però, per fortuna, le giornata iniziano ad allungarsi, la luce invita a lasciare il letargo e ci riempiamo improvvisamente di una nuova energia che ci fa venir voglia di camminare di nuovo, stare all'aria aperta. Torniamo a pensare ai viaggi, all'estate che si avvicina e che seppur ancora molto lontana, promette qualche nuova sorpresa.
Questo è uno dei periodi dell'anno che prediligo, come se con la natura si risvegliasse anche una parte assopita di me e tornassi a vivere pienamente.
Ma le vacanze sono ancora lontane, anzi, lontanissime e per ora l'unica cosa che posso fare è sognare, immaginare, organizzare il prossimo viaggio ed aspettare.

Così decido che, comunque, potrei almeno farmi un regalo.

E invece che ripiegare sul solito oggetto materiale che dopo poco smetterà di brillare uniformandosi a tutti gli altri che già vivono annoiati e dimentichi tra le pareti di casa, nelle scatole sotto i letti, negli armadi polverosi, scelgo di dedicarmi un'ora, sessanta meravigliosi e lunghissimi minuti di massaggio.

Ho una persona di fiducia che sa rimettermi al mondo. 
Ci sono mani che sono magiche.
E così, mentre fuori l'aria della quasi sette preannuncia una notte tiepida, mi abbandono completamente su un lettino tra pareti arancioni e incenso alla vaniglia. 
Una musica di sottofondo che a stento ricordo mi tiene compagnia mentre non penso più a nulla e nel giro di pochi minuti la stanchezza sparisce, i pensieri si dissolvono, le preoccupazioni che poco prima riempivano in maniera ossessiva la mia testa non sono più con me.
Se non avete mai provato vi consiglio di farlo al più presto. Un massaggio fatto bene, da mani esperte, è un balsamo per il corpo e per l'anima. 


Mi sono fatta un regalo, oggi. 
Il primo di una lunga serie, in attesa di tornare a camminare tra i fiori di montagna, di immergermi nelle acque trasparenti del mio Sud, di salire su un treno che attraversa la campagna dorata dell'estate. 






giovedì 16 febbraio 2017

Giorno sedici: lavori in corso. Una pausa pranzo di inizio primavera.

Oggi l'aria era talmente leggera da tirarti fuori, ovunque tu fossi e portarti a respirare la primavera improvvisa arrivata da ieri, senza alcun preavviso.

Avere due ore di pausa tra una lezione e l'altra è un privilegio, soprattutto se si lavora immersi in un parco meraviglioso. Così ho mangiato qualcosa in fretta spiando fuori dai vetri della scuola i colori accesi delle tredici di un primo pomeriggio di febbraio.

L'alluvione di qualche mese fa ha lasciato un paesaggio spettrale anche in quello che è il parco più bello della città.
I segni della violenza dell'acqua sono ovunque: sponde crollate, argini distrutti, fango che ricopre le scale dei ponti, rami e alberi interi sradicati che per mesi hanno galleggiato nelle acque del fiume diventate marroni dopo la furia della pioggia.
Ogni giorno mi chiedevo se si fossero dimenticati del nostro parco, se qualcuno ce lo avrebbe mai restituito com'era prima.
Per un tempo a me sembrato lunghissimo, quello che era stato "il mio mare" si è trasformato nella culla triste di una tormenta che sa di paesaggio post esplosione nucleare a tal punto che passare nei luoghi che da sempre amavo, attraversare quella parentesi che prima dell'alluvione era una sacra sospensione di silenzio e bellezza dalle brutture del traffico cittadino e del grigio diffuso, si era convertito in un doloroso passaggio decadente.

Per fortuna, però, succede che in un pomeriggio qualunque ti riappropri inaspettatamente di quella bellezza.

La temperatura dolce, il cielo di nuovo lieve che sfuma nelle mille gradazioni del celeste, l'acqua tornata verde, ma soprattutto vedere gente, tanta gente, al lavoro per riportare quei luoghi al loro splendore consueto è stata come una carezza piena di calore.
Ho camminato a lungo, a passo spedito, ma respirando a pieni polmoni tutta la luce di questo risveglio e sentendo sulle guance la fatica bella della rinascita, la spinta a risalire dopo il disastro.
Quegli uomini sulle barche, sulle piattaforme, quegli sconosciuti che spostavano rami, toglievano fango, passavano sulla terra bagnata coi loro camion, sistemavano siepi, alberi e affaticati si fermavano a guardare, di tanto in tanto, per accertarsi di muoversi nel modo giusto.

Mi sono fermata anche io, in contemplazione di quel miracolo.
Mi sono seduta su una panchina e con gli occhi socchiusi ho respirato insieme al fiume che mi è parso tornare a vivere.
Ho fatto un passo indietro, mi sono allontanata da me e mi sono vista nella direzione giusta cercare di ricostruirmi, dopo la catastrofe, esattamente come quegli sconosciuti stavano facendo con il mio parco, con il mio fiume, con quel paesaggio malinconico che tornava lentamente a galla.

Senza fretta, con fatica, ma con la certezza che tutto splenderà più di prima, nell'attesa di nuovi fiori.








mercoledì 15 febbraio 2017

Giorno quindici: il cosmo ci parla.

Così capita che d'improvviso torni il sole.
Quando ormai non ci credi più, anzi, nemmeno ci pensi, spunta il cielo. L'aria inizia a profumare di primavera, torni a sentire la voglia di camminare, di uscire, di vivere più che mai.

E mentre te ne vai al lavoro, con la testa piena di pensieri e un inatteso buonumore che sa di Marzo prematuro, ti guardi intorno e ti ricordi che ci sono tantissimi motivi per sorridere.

Il più divertente è che noti una scritta che da un po' non vedevi più.
Eppure era sotto i tuoi occhi tutti i giorni, eppure era bella chiara, eppure parlava di te e a te.
Sì, parlava a te, soprattutto.

E quella casualità ti fa ricordare che forse te lo devi proprio tatuare da qualche parte, che magari, tutte le persone che ti dicono che sei straordinaria, in fondo vedono qualcosa in te che tu non vedi, qualcosa che esiste, qualcosa di bello che dovresti smettere di negare e in cui iniziare a credere.

Prometti a te stessa che non te ne scorderai mai più, vuoi farlo, sai che devi farlo.
Sai che le uniche promesse importanti sono quelle che facciamo a noi stessi, ti sei anche regalata un anello per non scordartelo. Quell'anello è lì, legato indissolubilmente al tuo dito ed ogni volta che lo vedi luccicare al sole con il suo colore pieno di vita e di imperfetta bellezza, è lì per ricordarti solo una cosa:





https://www.youtube.com/watch?v=cLJp-YJeuzc






martedì 14 febbraio 2017

Giorno 14: Un promemoria speciale.

Capita,
a volte,
di dimenticarsi cose piuttosto importanti.
Capita.
A dire il vero a me capita molto spesso.
Ho una memoria abbastanza labile e una soglia dell'attenzione davvero bassa.

Bene, oggi è la festa degli innamorati, lo sappiamo tutti.
Di questo non c'è stato verso di dimenticarmene, nemmeno se lo avessi desiderato con tutta me stessa.
Così arrivando a scuola mi sono imbattuta in due sorprese piuttosto bizzarre che hanno a che fare proprio con San Valentino.

Non appena entrata uno dei miei eroici ottenni mi si avvicina per mostrarmi, finalmente, dopo giorni e giorni di duro lavoro, la lettera d'amore che ha scritto alla sua adorata compagna con tanto di poesia in rima.
La posa orgoglioso sul suo banco, prima che lei entri in classe.
Dopo poco arriva lei che con una terribile espressione di disappunto si accorge della lettera, le getta uno sguardo a metà tra la nausea e l'imbarazzo e dopo avergli dato una lettura veloce, archivia il caso in mezzo al libro di Italiano.
In quel preciso istante guardo lui, qualche banco più in là, con il viso rosso di vergogna e di disperazione affondare tra le mani.
Il dramma dell'amore non corrisposto, il dramma di chiunque abbia amato davvero, almeno una volta.
Durante l'intervallo lei mi confessa che lui non le piace. La invito comunque a ringraziarlo per essere stato così onesto e coraggioso nel suo impavido gesto senza età.
Lei lo fa, con poca convinzione.
Lui torna da me e mi bisbiglia sottovoce: "Maestra, grazie per avermi dato il coraggio di dichiarare il mio amore". Lo fa nonostante la sconfitta, nonostante tutto, lo fa nonostante il nonostante.

Dopo poco lei di nuovo da me, stavolta con un regalo.
Si tratta di un bel disegno: ci sono io e c'è un mio ipotetico fidanzato.
Sono elegante, indosso un bel vestito da sera verde smeraldo. Lui è un po' hypster: barba incolta e ciuffo gellato, jeans aderenti, camicia casual. Mi porge un mazzo di fiori e mi guarda sognante.
Lo guardo e sorrido e penso che nel giro di un paio d'ore, questi due piccoletti mi hanno inconsapevolmente ricordato due cose importantissime di cui troppo spesso mi sono dimenticata: il preservare sempre e comunque il coraggio di amare, nonostante tutti i nonostante e lo smettere di inseguire amori impossibili, lasciando invece, che questa volta, sia qualcun altro a cercare me, che questa volta qualcuno mi ami perché io per prima ho imparato ad amarmi.




https://www.youtube.com/watch?v=6GFvUCcljkM







lunedì 13 febbraio 2017

Giorno tredici: un tè nella pioggia.

Martedì tredici febbraio: come dicevo, il mese peggiore. Infinito groviglio di nuvole, freddo e grigio. Sono quasi due settimane che non si vede il sole, il mio umore inizia ad affievolirsi pesantemente ed io a spazientirmi.
Nemmeno la quotidiana camminata verso scuola è in grado di regalarmi qualche attimo di sollievo: il fango sugli stivali puliti, il fumo delle macchine ferme al semaforo, il cielo inesistente.

Pare che tutto si sia spento.

Per fortuna entrando in classe trovo i bimbi con la loro quotidiana voglia di raccontarmi cosa è successo ieri, una maglia colorata che mi ricorda di sorridere, un paio di orecchini di pasta fimo appositamente ideati e creati per me dalle mani di una di loro.
Penso di esser fortunata a fare un lavoro simile. Non lo cambierei con nessun altro al mondo.
L'entusiasmo e la carica che sono in grado di darti i bimbi una volta che entri nelle loro vite è qualcosa di straordinario che ti aiuta a dimenticare in un istante ogni tuo problema.

Dopo lavoro torno a casa decisa a rintanarmi per qualche ora nel mio piccolo nido e a godermi il tepore di un tè.
Ho sempre avuto una passione smodata per gli infusi, le tisane e tutto ciò che si può bere lentamente per riscaldare il corpo e la mente. Ricordo che da piccola amavo collezionare le scatole dei tè pregiati che regalavano ai miei genitori. Tutt'oggi, non esiste sabato pomeriggio passato al mercato delle pulci dal quale io non torni senza aver comprato almeno una scatola di latta.

Così mi accingo a preparare il mio tè alla menta, mentre fuori tutto è umido.

Adoro l'idea di avere un rituale privato da ripetere ogni giorno.
Le abitudini, quelle belle, sono in grado di farci sentire protetti, di creare una parentesi solo nostra dove rinchiuderci e sentirci al sicuro.
Le nostre abitudini ci rispecchiano, parlano di noi, ci coccolano nel loro costante ripetersi sempre uguale, diventando una parte fondante del nostro particolarissimo essere unici.

Mentre verso l'acqua bollente sulla bustina e il profumo fresco della menta inizia a diffondersi tutto intorno, un senso di benessere mi riempie improvvisamente.
Sta forse nella bellezza di questi insignificanti dettagli la felicità?

Mentre sorseggio il mio tè, mi dico che sì: forse ancora non è arrivato il sole, ma anche godermi questo momento così insignificante, eppure così unico, può essere un piccolo assaggio di luce e che anche la pioggia può esser bella.

https://www.youtube.com/watch?v=cT0hgH9qVfg






domenica 12 febbraio 2017

Giorno dodici: Dolcetto e tarocchi.

E così succede che una domenica piovosa di febbraio, una domenica di quelle in cui la malinconia ti riempie e tu non sai come uscirne, decidi di fare qualcosa di diverso: chiami una delle tue migliori amiche e insieme andate a farvi un aperitivo tra risate e vino, lacrime e tarocchi.

Il bar è piccolo quanto basta, l'atmosfera intima. Il posto è uno di quei rari locali dove tutto sa ancora di autentico, dal bancone alle facce di chi ci sta dietro e servirti da bere.
Tra un Dolcetto e una crema di ceci passi la serata a chiacchierare, riflettere, scherzare e sospirare.
Ti trovi a dire grazie, non sai nemmeno tu a chi, per le amiche e gli amici che la vita ti ha regalato e a pensare che senza di loro saresti davvero persa.

Poi ti fai leggere le carte: un tentativo tra il serio e il faceto di mettere chiarezza nel casino della tua vita, di spiegare, anche se ti dici che non ci credi, di comprendere, di dare un'interpretazione alla confusione che riempie le tue giornate.

E incredibilmente succede che le carte hanno ragione.

Inspiegabilmente accade che quei tarocchi ti raccontano qualcosa di te che tu già sai, ti confermano quanto avevi bisogno di sentirti dire.
Eppure la persona che hai davanti non sa nulla di te, eppure hai pescato quelle carte a caso, eppure questa cosa dei tarocchi la stai facendo per gioco, eppure non ci hai mai creduto.

Eppure, eppure, eppure.

Eppure credevi che le cose fossero o bianche o nere, ma con il tempo hai capito che esistono miliardi di infinite sfumature e di situazioni intermedie che non si collocano né da una parte, né dall'altra.
Improvvisamente hai compreso che non esiste il giusto e lo sbagliato, che quando tutto era sì o no, era molto più semplice, perché non esisteva spazio per le incertezze, le variabili, le possibilità.
Eppure ora sei cresciuta e ogni cosa ha assunto un colore diverso, un valore nuovo, un'assenza di sicurezza, ma allo stesso tempo un nuovo senso fatto di nuovi punti di vista.

Eppure ora sei tu, davanti a quella nuova te che inizi a conoscere solo adesso.
Sei tu, ancora con i tuoi amici, il vero unico e certo rifugio, sei tu, senza il moralismo che ti era stato insegnato, quello che giudica dall'alto di un'ipotetica correttezza.
Sei tu: imperfetta, nuova, rotta, svuotata, ma in rinascita.

Sei tu: un bicchiere di dolcetto, una fetta di torta da dividere, l'amicizia sacra e i tarocchi.
E sei felice di tutto questo.
Sei felice, delle tue ombre e del tuo nuovo risplendere.
Felice nonostante la fatica.






sabato 11 febbraio 2017

Giorno undici: due libri per riprendere in mano una passione.

Sabato di privilegi, sabato senza sveglia: spesa, libri e una lezione di yoga Nidra la pratica dedicata al respiro, in compagnia di una persona importante.
Mentre distesi sul tappetino ci lasciamo andare al ritmo del nostro inspiro ed espiro, dal piano di sopra, un pianoforte di qualcuno che si sta esercitando a suonare ci tiene compagnia durante tutto il tempo della lezione. Incredibile, questa casualità -che io non credo sia affatto casualità- che torna nella mia vita in certi momenti di perfezione. L'ultima volta che ho sentito un pianoforte suonare era una mattinata caldissima di Agosto di un paio di estati fa, io su un letto disfatto, gli occhi spalancati di sorpresa su una Madrid dal cielo blu cobalto, un infantile sorriso stampato sul viso.
Mentre torno a casa ancora immersa nell'impalpabile sospensione che certe esperienze ti regalano penso che ho nostalgia di una lunga camminata.
Ho troppo poco tempo per farlo: è vero, ogni giorno vado e vengo da scuola a piedi, sono solo trenta minuti, ma per me è un piacere irrinunciabile.
Ho sempre amato camminare, credo abbia a che fare con il fatto che sia un'attività in grado di riconciliarti con il mondo e con tutto ciò che ti circonda.
Poche attività come una lunga camminata sono capaci di restituirmi il buonumore, farmi tornare l'energia, migliorare il mio respiro e la predisposizione dei confronti della vita. Camminare è bello da soli o in compagnia. Mai il tempo dedicato a una passeggiata è tempo sprecato.
Mentre cammini puoi riflettere, puoi goderti i tuoi luoghi con la musica giusta nelle orecchie, puoi farti una bella chiacchierata con un amico, puoi scoprire ed innamorarti di scorci che avevi ignorato fino a quel momento. Camminare è bellissimo in città e meraviglioso nella natura. Una passeggiata in mezzo al verde è una cura certa per ogni tristezza, ti rimette in connessione con la terra, ti fa venire voglia di non fermarti mai, di andare oltre i tuoi limiti, di stancarti ancora per avvicinarti allo spettacolo di un nuovo panorama o semplicemente per ritornare a te stesso.
Ecco, allora, che quando arrivo a casa intuisco che è giunto il momento di rispolverare due libri speciali, uno in particolar modo che mi aiuterà a realizzare un progetto che ho in cantiere da qualche anno. So, con certezza, sento chiaramente, che questo è il momento per coronare il mio sogno: finanze permettendo, quest'estate vorrei riuscire a iniziare almeno una parte del Cammino di Santiago. Il momento è quello giusto, sono a un bivio nella mia vita e niente come una lunga e faticosa camminata potrà darmi le risposte che cerco!
Così, inizio a sfogliare questa piccola guida e dentro di me ad accarezzare il sogno che prende forma.
Domani chiamerò un caro amico, esperto del Cammino che saprà certamente darmi consigli importanti ed ecco che poco per volta inizio ad unire i pezzi, a delineare tappe, a chiarirmi le idee. Perché come diceva il grande poeta Machado : " Caminante ho hay camino, se hace camino al andar".
Tempo di partire, tempo di tornare a Me.

https://www.youtube.com/watch?v=HwqMEyYP0uw

venerdì 10 febbraio 2017

Giorno dieci: le bugie di Carnevale.

Il venerdì, si sa, è il giorno più bello della settimana, almeno per me, che da sempre faccio parte di coloro che praticano la filosofia del "sabato del villaggio": ossia si gode di più dell'attesa della cosa bella che della cosa bella in sé!

Oggi ero particolarmente stanca, nonostante ciò, uscita da scuola mi sono imposta di vincere la pigrizia che mi avrebbe fatto rotolare direttamente verso il divano di casa e di dirigermi invece verso il mio parrucchiere per farmi un taglio veloce e una piega. Come spesso dico: ho fatto bene ad ascoltare la nuova me!

Mentre mi lasciavo massaggiare la testa dalla carezza dell'acqua calda e da due mani esperte, ho riscoperto in un attimo il piacere di dedicarsi un po' di tempo, soprattutto dopo una giornata stremante.
In fondo basta davvero poco per tornare al mondo!
Così dopo lo shampoo e il taglio, attimi in cui ho rischiato di addormentarmi più volte, il phon mi ha dato il colpo di grazia e ho ceduto per qualche istante al richiamo della pennichella improvvisata!

Non paga della super coccola che mi ero appena regalata, di ritorno verso casa, ho fatto tappa in due luoghi molto interessanti: la mia panetteria di fiducia e il mio negozio preferito di pietre dure, Il quarzo rosa, dove compro praticamente tutti i miei gioielli da qualche tempo a questa parte.
Risultato?
Un sacchetto pieno di bugie, le prime dell'anno con cui ho fatto merenda e più tardi, un goloso spuntino leggendo il nuovo libro che mi aspettava sul comodino da un po' e infine un braccialetto con pietre colorate.

Adesso mi rintano sotto il piumone a godermi l'ultimo piacere della giornata: qualche pagina prima che il sonno si impossessi di me, stavolta senza timore di addormentarmi in pubblico!



Giorno nove: il tronchetto della felicità.

Ieri è stata una giornata strana.

Una persona importante che sta per andarsene mi ha regalato una pianta, una delle sue piante: un tronchetto della felicità.
Regalare una pianta che è stata nostra è un po' come regalare un pezzo di noi, una parte viva che si affida nelle mani di qualcuno che sia capace di prendersene cura. 

Il momento in cui una persona importante deve lasciarci, per i motivi che possono essere i più disparati, sappiamo che sarà difficile. Sappiamo che dovremo fare i conti con la perdita, il lutto, il vuoto che lascerà nella nostra vita. Sappiamo che tenteremo umanamente di riempire quel vuoto con chiunque, inventandoci mille cose da fare pur di non pensare, pur di riempire il prima possibile quella voragine: abbiamo voglia di lottare contro il dolore, contro la solitudine, contro la mancanza, vogliamo dimenticare, ignorare, passare oltre. Vogliamo smettere di vederla, girarci dall'altra parte. 

Questa volta io, però, ho deciso di abbracciarla la mia malinconia, perché in fondo credo che anche questo faccia parte del gioco. 

Non si può fingere che non esiste un risvolto della medaglia.
Chi sceglie di vivere, sempre e comunque, si espone al rischio della perdita. Chi sceglie di provarci, di non tirarsi indietro, sa che sarà meraviglioso, ma anche pericoloso. Chi sceglie di sentire, tutto, senza inutili protezioni che mettano a tacere le emozioni, sa che va incontro inevitabilmente alla caduta. 
Ma sa anche bene che se ha scelto di vivere qualcosa è perché ne valeva la pena e che dopo quella caduta si rialzerà nuovamente, magari un po' acciaccato, affaticato, ma più vivo di prima. 
Per anni ho lottato contro me stessa, ho tentato di cambiare questa parte di me così emotiva, così incosciente, così affamata di vita. Non volevo più essere quella che viveva tutto al mille per mille. Ci sono stati attimi di delusione talmente amare in cui invidiavo chi sa proteggersi razionalmente dai rischi del sentire senza freni e magari esasperando questo aspetto, arriva a non sentire più nulla.

Ora, invece, non voglio più farmi la guerra. 
Io sono così e una delle promesse più importanti che mi sono fatta è quella di aderire il più possibile a me stessa, indipendentemente da tutto e da tutti. 
Io sono quella che sente ogni cosa amplificata, quella che sprofonda quando soffre, ma anche quella che si accende di entusiasmo per le piccole cose di ogni giorno. Non può esistere una me senza uno di questi due aspetti, non posso decidere di escludere quello che crea più problemi e tenere solo l'altro.
Questa sono io e per questo motivo, il tronchetto della felicità starà qui con me a farmi compagnia da qui fino a quando sopravviverà. Mi prenderò cura di lui e ogni volta che lo guarderò penserò a una storia che è stata ed è complessa, intricata, anche dolorosa, ma che mi ha dato e mi sta dando tanto, nonostante tutto, al di là dell'idea di perfezione, al di là di ogni giudizio esterno di chi non sa e si permette di dare consigli non richiesti, al di là di ogni logica. 

Le emozioni sono la sola ragione per cui valga la pena rischiare e la mia pianta starà lì a ricordarmelo, fino a quando avrà vita. 
Proprio lì, davanti alla mia porta con appeso un cuore e uno zerbino dove ce n'è un altro disegnato. 

Non poteva che essere casa mia, questa, proprio come mi ha detto Qualcuno!





mercoledì 8 febbraio 2017

Giorno otto: di nuovo zia!

Essere zia è meraviglioso, sempre e comunque e ancora di più lo è quando i tuoi nipoti, di sangue o adottivi, sono sparsi per il mondo, parleranno lingue diverse, hanno genitori che provengono da nazioni differenti, sono i figli non solo dei tuoi fratelli,  ma anche dei tuoi Amici, di quelli che sono fratelli per scelta.

Così questa sera ho conosciuto il mio ennesimo nipote e ne sono già follemente innamorata.
È minuscolo, ma ha delle guance da mordere, due occhi disegnati e delle orecchie in miniatura che nemmeno a volerle fare così perfette ci si sarebbe riusciti! Il mio nuovo nipote vive un po' lontano, in Polonia, ma i suoi genitori sono miei fratelli adottivi: con suo padre ci sono cresciuta tra risate fino a non poter più respirare e passeggiate terapeutiche nel nostro quartiere quando uno dei due era in un momento no, la mamma invece me l'ha regalata lui, il mio amico ed è stata una delle scelte migliori che abbia mai fatto!

Si dice che vedere i propri amici sposarsi, avere figli, mettere su famiglia sia traumatico se tu non segui il loro ritmo, se tu " rimani indietro". Questo è quello che dice la gente, quello che ci vogliono imporre. Io in realtà non la vedo così.
Semplicemente credo che ognuno di noi abbia una percorso diverso e personalissimo e che non ci si possa misurare con gli altri a suon di figli, convivenze e contratti a tempo indeterminato.
Ci sono miei coetanei che mi compatiscono perché mi credono infelice non avendo figli e nemmeno un compagno, eppure io vedo molte coppie sposarsi e mettere su famiglia solo perché a un certo punto è la cosa più "normale" da farsi. Io penso che non esista la normalità in amore, che non ci siano tempi prestabiliti, che ogni storia è un mondo a sé, con tempi e logiche diverse.
Quello che è certo è che ognuno ha esperienze, incontri, amori diversi e che io, al momento, nemmeno ci penso ad avere un figlio,  perché nella mia visione delle cose un figlio è la naturale conseguenza di un amore di un certo tipo, non un gesto fine a se stesso fatto per soddisfare un'esigenza personale.

A volte, poi, però e per fortuna, si incontrano anche persone che invece i bimbi li hanno per scelta, come in questo caso e queste sono le volte in cui mi viene voglia che succeda anche a me.

Benvenuto Edvard, benvenuto amore nuovo, desiderato, scelto e voluto con consapevolezza.  La tua vita sarà meravigliosa: parola di Zia!



martedì 7 febbraio 2017

Giorno sette: indovina chi viene a cena?

Questa sera sono rientrata tardissimo, erano quasi le otto ed ero stanchissima. 
Due ore di scrutini, per chi fa l'insegnante ma odia il suo obbligo di dover giudicare, valutare una persona attraverso dei voti, sono mille volte più estenuanti che otto ore in classe nell'allegra fatica del vociare di bambini.
Avrei voluto tanto trovare un piatto caldo ad aspettarmi, ma così non è stato. Allora invece che arrendermi alla pizza d'asporto vicino casa mi sono messa ai fornelli: avevo un ospite speciale e non potevo deluderlo!

Mentre rompevo le uova, tagliavo il formaggio a cubetti, bollivo la verdura, mentre mangiucchiavo qualche oliva nera sorseggiando una birra, mi sono soffermata a pensare a quanto il mio ospite sarebbe stato felice di trovare una bella tavola preparata con cura, qualche candela accesa, il caldo di casa ad abbraccialo. Ho cercato di fare ogni singolo gesto con amore, lentamente, pensando solo a quello che stavo facendo senza divagare come di solito succede in questi casi. 
Siamo talmente abituati a dover far fronte a decine di preoccupazioni contemporaneamente che raramente ci concediamo il lusso di vivere il presente, anche nelle piccole azioni che svolgiamo regolarmente come preparaci un caffè o farci una doccia. Bene, questo è uno dei miei nuovi propositi da un po' di tempo a questa parte ed è stato sorprendente percepire come il riuscire a farlo, il riuscire a stare nel momento presente regali una strana e piacevolissima sensazione di pace e serenità sconosciuta. 
Dopo aver infornato la mia torta salata mi sono messa sul divano ad attendere che cuocesse e che il mio ospite arrivasse. 
Ecco, quell'ospite è una persona davvero speciale, una di quelle persone a cui vorresti dare il meglio perché sai che se non lo farai tu, non lo farò nessun altro! Quella persona ero io. 
Sì, questa sera ho deciso che meritavo la piccola attenzione di una cena preparata senza fretta, di una tavola semplice, ma curata, di prendermi cura di me. 

I primi tempi in cui vivevo da sola il momento della cena era sempre il momento critico della giornata. Avere uno spazio solo per sé può essere meraviglioso e terribile allo stesso tempo: libertà e solitudine sono le due facce della stessa medaglia e quando mi sedevo a tavola senza nessuno con cui scambiare due parole, facevo fatica ad ingoiare anche il boccone amaro di quel silenzio insieme al mio cibo. Con il tempo, invece, ho imparato che anche questo può essere bello, che si può stare bene, molto bene, senza necessariamente avere la compagnia di nessuno oltre a quella di se stessi.
Pare che Nietzsche abbia detto: "La mia solitudine non dipende dalla presenza o assenza delle persone.  Al contrario, io odio chi ruba la mia solitudine senza offrirmi in cambio una vera compagnia". Ecco, qualcuno ha detto meglio di me quello a cui ho pensato questa sera quando ho iniziato ad assaporare la mia cena.



lunedì 6 febbraio 2017

Giorno sei: una valigia da dieci chili.

Oggi è stata una giornata durissima, nonostante il cielo sia tornato a farmi compagnia dopo settimane di grigio e bianco e nero sbiadito.

Ormai da qualche giorno vivo in una sorta di mondo ovattato per via della mia fastidiosa influenza che si fa sentire prepotentemente. Ogni rumore perde la sua reale vivacità e ogni cibo il suo sapore.
Come se non bastasse, qualche giorno fa ho ricevuto una batosta di quasi quattrocento euro per via della mia macchina che ormai si avvia verso l'età pensionabile e ahimè, gli acciacchi si fanno sentire... soprattutto sul mio già leggero conto in banca. Ma come si suol dire, i mali non vengon mai da soli e dunque ecco che verso sera mi accingo a prender l'auto e scopro con mio estremo stupore che non riesce a partire. Dopo vari tentativi (poi per fortuna risolti grazie all'intervento del mio super meccanico di fiducia) me ne torno a casa e mi arrendo al divano senza forze, tranne quella per scoppiare a piangere dalla rabbia.

Ci sono poche cose da fare in questi casi per tirarsi su il morale, una di queste, che di solito funziona, panacea di tutti i mali e consolazione di tutti gli oppressi è: programmare un viaggio e comprare un biglietto per partire!
Così con tutta la determinazione del mondo, mi metto all'opera, decisa a trasformare la rabbia in energia ed ecco che in pochi minuti tutto prende una piega diversa.
Improvvisamente mi trovo immersa nel profumo di una partenza vicina e già solo questo pensiero è un balsamo salvifico.
Non c'è nulla che ami di più che viaggiare!

Nella mia vita ho vissuto i momenti migliori su un treno sconquassato, dialogando muta con uno sconosciuto che mi sedeva di fronte, in una stazione scolorita dal tempo dove gli altoparlanti scandivano parole incomprensibili, persa tra le strade di un luogo mai visto prima o ad attaccar bottone con qualche abitante del luogo presa dall'entusiasmo del nuovo.
Solo quando siamo lontani dal noi stessi siamo veramente liberi, questo è il potere che ogni viaggio porta con sé, il privilegio del poter "non essere nessuno" per un tempo limitato. E così ogni partenza è scoperta, rinascita, allontanarsi per poi tornare più ricchi e sempre un po' diversi.

Ecco che in pochi istanti la stanchezza della giornata lascia spazio al profumo del mare mosso, gli occhi si riempiono del bianco dei vicoli stretti e del blu acceso del cielo del Sud in estate. Davanti alle porte brulicanti di vita siedono anziani intenti a chiacchierare in un dialetto che sa un po' di oriente, le piazze barocche si accendono d'oro nel tramonto che accarezza i bei palazzi e le chiese dalle facciate sensuali.

Lo so, avrete già intuito la meta del mio viaggio, non è difficile capirla, ma quello che ancora non vi ho raccontato è che in tutta questa meraviglia, dovendo far di necessità virtù, ho dovuto risparmiare un po' di soldi e così ho preso un volo senza bagaglio da stiva. Insomma, per la prima volta in vita mia, viaggerò con non più di dieci chili al seguito.
In questo preciso "tratto di strada" in cui credo che nulla sia casuale, viaggiare con un bagaglio così essenziale mi pare quasi una stramba benedizione. Per la prima volta mi troverò a fare i conti con il concetto di selezione: liberarsi dal superfluo per tornare a viaggiare leggera. Non sarebbe potuto accadere in un momento migliore!




domenica 5 febbraio 2017

Giorno cinque: le arance di Mamma.

Stare a casa malati ha un lato positivo: prima o poi qualcuno che ti vuole bene passa a trovarti!

E così, in questa Domenica uggiosa in cui fuori dalla finestra non ha smesso di gocciolare un attimo, mi sono goduta -in ordine sparso- il caldo di casa, un sonnellino coi miei gatti, il privilegio di leggere qualche pagina senza fretta, ma soprattutto una merenda con due donne importantissime della mia vita: mia mamma e una delle mie migliori amiche!

Arriva mamma con arance fresche e provviste di cibo come se stesse per scoppiare una guerra a breve.
Ci mettiamo a chiacchierare e decidiamo di preparare una crostata ai frutti di bosco e pinoli. Come ogni volta che lei entra in casa si inizia a lavorare, c'è sempre qualcosa da fare! Mi aiuta a stendere i panni manco fossi moribonda, dispensa consigli sul bucato e sulle pulizie, mi passa ricette. Non si ferma un istante.

Poco dopo ci raggiunge la terza donna e come sempre succede, quando ci si ritrova tra di noi scattano i pettegolezzi, le risate, la complicità. Incredibile come una semplice domenica pomeriggio che aveva tutta l'aria di essere noiosa possa trasformarsi in pochi istanti.

C'è il piacere dello stare rintanati mentre fuori piove, la sensazione di godersi il letargo invernale, la bellezza delle cose semplici che poi sono le più speciali, il gusto dello stare a perder tempo senza fretta.
Sono attimi comuni, eppure così rari.

Ecco, forse anche questo è un piccolo motivo per sentirsi felici oggi, essermi ricordata che la bellezza sta nelle cose semplici.




https://www.youtube.com/watch?v=7SESgcC8CGw






sabato 4 febbraio 2017

Giorno quattro: il primo sole.

Giorno quattro: il primo sole.

Siamo erroneamente abituati a credere che la felicità abbia a che fare con eventi straordinari, la rincorriamo illusi che quando arriverà tutta la nostra vita si tingerà di rosa. Siamo certi che saremo felici solo "quando": avremo un bel lavoro, un compagno innamorato, più soldi e via dicendo. Leghiamo l'idea di felicità a qualcosa di esterno a noi, a qualcosa che deve arrivare. Invece credo che la felicità sia cosa da tutti i giorni, quella sottile luce che s'insinua nella normalità delle nostre vite quando stiamo facendo altro e che stia a noi scovarla tenendo gli occhi ben aperti per non perderne nemmeno un grammo.

Non sto dicendo nulla di nuovo, lo so bene.

Questa riflessione arriva adesso perché ho passato tutta la mia giornata a casa -non per scelta, ovviamente-, ma per via della mia terza influenza nel giro di pochi mesi.
Non posso di certo dire che sia stata una giornata emozionante o piena di meraviglia: ho pulito, tossito senza tregua, lavorato, compilato le pagelle online. Eppure, questa mattina, dopo aver spalancato la finestra sull'ennesima giornata grigia me ne sono andata a bere il mio tè con la convinzione che qualcosa di bello lo avrei trovato. Infatti tornando in camera dopo poco, mi sono trovata di fronte alla sorpresa del primo timido sole dopo una settimana di nebbia e pioggia.

Si è trattato solo di un delicato fascio di luce che giocava a creare sagome sulla parete, era ancora pallido, incerto, ma mi è sembrato che portasse con sé qualcosa di straordinario.
Mi ero quasi dimenticata quanto fosse bella la luce di certe mattinate in cui non te l'aspetti, il sapore di qualcosa che sta per rinascere, la certezza dei nuovi inizi.


venerdì 3 febbraio 2017

Giorno tre: la mongolfiera.

Questa mattina andare al lavoro è stato particolarmente difficile: era venerdì e come ogni venerdì i bambini erano incontenibili, stremati, iperattivi, difficili da gestire.
Io anche.
Ad aggravare la situazione un'influenza latente da una settimana circa che ha deciso di esplodere in tutta la sua fastidiosa potenza proprio alle porte del fine settimana, facendomi, tra le altre cose, cancellare ben tre impegni a cui tenevo particolarmente.
Così mi ritrovo qui seduta con la mia tazza fumante di qualcosa che mi illudo possa aiutarmi a star meglio e se penso all'intento di questo mio spazio fatto di parole, mi viene subito in mente un piccolo meraviglioso regalo che ho trovato sulla cattedra a fine intervallo.
Adoro i disegni e le creazioni dei miei piccoletti: la loro capacità di giocare con la fantasia è un balsamo prezioso che mi ricorda l'importanza di proteggere la bambina che ancora porto dentro di me. In questo caso la sorpresa e l'entusiasmo salgono alle stelle per via del soggetto liberamente scelto dall'artista in questione.
Vi racconto: qualche tempo fa, a cena con un'amica, si discute di letture interessanti e finiamo a disquisire di legge dell'attrazione e affini. Mi racconta che in uno dei libri che aveva letto su questo dibattuto argomento, si consigliava al lettore di scegliere un "segno", un oggetto, un simbolo che fosse rappresentativo o importante per sé e che ogni volta che lo si fosse incontrato sul proprio cammino, significava che si stava andando nella direzione giusta. Bene, quella sera stessa scelgo la mongolfiera, istintivamente e senza pensarci troppo. Non ci crederete, ma da quel giorno mi è successo tantissime volte di imbattermi in foto, disegni, immagini televisive e via dicendo rappresentanti il mio segno. Lo so, obbietterete che è perché da quel momento ci ho fatto caso e forse è davvero così, tuttavia sono certa che converrete con me sul fatto che una mongolfiera non è proprio facile da rintracciare come, che so io, una Cinquecento bianca!

Insomma, sarò ingenua, ma mi piace crederci!
Mi piace da sempre mettere un po' di magia alle "finte casualità" della vita. Non ho mai creduto nel caso, quanto piuttosto nel fatto che qualcosa intorno a noi ci parli, ci mandi dei segnali e che stia a noi, attraverso la nostra personalissima grammatica sentimentale, interpretarli, dare un valore ed una collocazione a ogni singolo dettaglio.



giovedì 2 febbraio 2017

Giorno due: Lo yoga, qui ed ora.

Entro nell'androne, scendo le scale verso il seminterrato con ancora l'umidità appiccicata sui capelli e sul giaccone. Appena percepisco il profumo di incenso arrivare da dietro la porta sento che tutta la fatica dell'interminabile giornata evapora in un istante.
Sono uscita di casa alle otto in punto questa mattina e nel momento in cui mi tolgo finalmente gli stivali bagnati per camminare solo con le calze verso il mio tappetino blu, sono esattamente di nuovo le otto: di sera, però.
Nel giro di dodici ore ho parlato dell'origine dell'universo, curato mal di pancia e ginocchia sbucciate, consolato una bambina che piangendo mi ha chiesto di bocciarla, così potrà andare in una classe diversa con compagni meno impegnativi, ho giocato a pallavolo, ascoltato barzellette, abbracciato, accarezzato, ho urlato, mi sono innervosita e poi calmata, ho attraversato il parco deserto, sono sopravvissuta ad molestissimo raffreddore, ho partecipato ad un corso di formazione, controllato i voti per le pagelle, scritto due e mail, fatto una chiamata, preso la metro, la macchina, i piedi per spostarmi, ho fatto anche una piccola spesa. Sono stanca, appesantita dalle mie due borse piene di libri, tonno in barattolo, frutta e riso. Insomma, la sola cosa che vorrei è essere a casa spalmata sul divano con un plaid caldo. Invece, la nuova Me che mi fa compagnia da qualche tempo, ha deciso che bisogna avere forza di volontà, una forza di volontà di ferro e quindi mi ha convinta che nonostante tutta la stanchezza, una serata di yoga mi avrebbe solo potuto aiutare. E ho fatto bene ad ascoltarla!
Mentre la voce lieve del maestro mi guida in uno stato di rilassamento profondo sento svanire tutte le tensioni, i pensieri che affollavano la mia mente rincorrendosi senza tregua si fanno sempre più rarefatti fino a scomparire quasi del tutto. Per la prima volta, dopo mesi, il potere della pratica si manifesta in tutta la sua meraviglia: hic et nunc, qui ed ora. Non oppongo più resistenza, sono leggera, non ho bisogno di controllare, ma solo di lasciarmi andare a questo momento di vera liberazione.
Quasi due ore di yoga possono rigenerarti da una giornata interminabile, oggi non potrei che concludere in modo migliore.
Dentro di me, in silenzio, mi ringrazio per essermi ascoltata.




mercoledì 1 febbraio 2017

Giorno uno: Camminare tra la nebbia

Cammino tra la nebbia mentre attraverso il grande parco. I rami si cancellano quasi imbevuti di questa strana e impalpabile malinconia. Il fiume sotto i miei passi è stato inghiottito dal grigio, solo qualche macchia bianca di ali di gabbiano.
Ogni mattina questo è il mio tragitto verso il lavoro.

Oggi inizia un nuovo mese, il mese che amo di meno in assoluto: Febbraio è il più umido, il più freddo, il mese in cui l'inverno sembra trascinarsi infinito nascondendo gelosamente Marzo che a breve tornerà.

Quando stamattina ho aperto gli occhi e ho sbirciato fuori dalla finestra, la prima sensazione è stata di sconforto, ma poi, qualche istante dopo ho avuto una sorta di piccola illuminazione: ci sono cose, come questo non cielo fumoso, che accadono e che non possiamo controllare.
Quello che però possiamo fare è cambiare il nostro punto di vista su di esse: smettere di opporci, lasciare che tutto accada, cercando i fiori anche tra le crepe dell'asfalto più ostinato.
Così mi sono preparata il mio caffè con un lieve nuovo sorriso sulle labbra e una sensazione inattesa di leggerezza.
Quando impariamo a lasciar andare viviamo uno dei momenti più felici della nostra esistenza. Solo abbandonarsi fiduciosi, affidarsi a ciò che accadrà, lasciare che ogni cosa fluisca senza opporre resistenza.

È tempo di fare spazio, di lasciare indietro i fardelli pesanti, di ripartire.
Ed io lo faccio da qui, oggi: da una passeggiata lieve tra la nebbia che rappresenta il primo di trecentosessantacinque motivi per cui essere felici, la prima piccola futile ragione per sorridere anche oggi.



A breve sarà primavera.