giovedì 30 marzo 2017

Giorno cinquantasei: la bellezza del riccio.

Non ci sono cose più soggettive della bellezza.
Lo sappiamo bene tutti.
Eppure spesso ce ne dimentichiamo.

Succede perché siamo schiacciati da un modello di bellezza preconfezionato, appiattito dal conformismo, da una logica estetica che lascia poco spazio al gusto personale.
Si tratta di una bellezza che risponde a canoni di perfezione irreali dettati da qualcuno che decide al posto nostro.
Pare sia sempre stato così: eppure, molte volte, tornare a sentire la bellezza, quella vera, ascoltare solo la nostra bussola estetica, credo sia un atto dovuto.
Parlo di qualcosa che dobbiamo a noi stessi per primi e poi a chi ci gravita intorno.

Personalmente ho sempre apprezzato di più il fascino che la bellezza.
Spesso mi sono invaghita- o anche innamorata- di uomini con tratti imperfetti o difetti evidenti che per me erano solo meravigliosi tratti di unicità. Questa non vuole essere un'ode ipocrita alla bruttezza, sono una donna innamorata del bello in tutte le sue declinazioni, ma allo stesso tempo credo che sia compito nostro restituire il giusto significato a questa parola così preziosa.

Riflettevo su questo nel primo pomeriggio, mentre passeggiando sull'assolata spiaggia improvvisata del parco, mi sono imbattuta in un'ultra settantenne che prendeva il sole.
Non si poteva di certo definire una donna attraente, eppure nel coraggio di quel gesto così sfrontato, nella noncuranza di chi "a una certa età" indossa un costume e si sdraia a godersi il primo caldo lungo le sponde di un fiume molto frequentato, io ci ho visto libertà e nulla più di questo può essere considerato Bello.

Ho pensato a quante volte mi sono sentita inadatta, troppo poco carina, poco attraente.
Poi subito dopo, ho pensato a quante persone, invece, per il semplice fatto di sentirsi a loro agio nel loro corpo, con tutte le infinite imperfezioni del caso, vengano viste come belle dal di fuori.

Ecco, mi sono detta, devi imparare ad abbassare le pretese verso te stessa.

Sono estremamente generosa quando si tratta degli altri: pronta a comprendere, ad ammirare e a vedere magia anche dove a volte non c'è.
Ma quando sono io sotto la lente d'ingrandimento del mio occhio, divento il giudice più spietato che ci sia.
Forse, mi ripetevo senza staccare lo sguardo dalla bandana rossa della signora, anche lei un tempo non si apprezzava poi così tanto.
Magari è una cosa che si impara con gli anni o molto più semplicemente, arriva un momento in cui riusciamo a proiettare su noi stessi tutta quella meraviglia che eravamo abituati a riservare agli altri.
Arriva un giorno in cui tutta la generosità che abbiamo sprecato, anche verso chi non la meritava, impariamo a tenerla in serbo per noi, a diventare più dolci, prima di tutto, verso noi stessi.

La signora con la pelle caramellata mi ha ricordato che ci vuole coraggio per innamorarsi di sé, ma che se lei non lo avesse fatto, ad esempio, si sarebbe persa questo pomeriggio paradisiaco di fine Marzo, i musicisti che provano con il sax sulla sponda opposta, le canoe che scivolano lente sull'acqua.

Per amare tutto il resto bisogna partire da noi.
Questa è la sola regola certa.
Non può esserci amore senza amor proprio, non può esistere bellezza più grande di quella che sappiamo ritrovare nella nostra unicità.
Dovrebbero insegnarcelo quando siamo piccoli, sin da subito.
Ci provo ogni giorno, quando entro in classe.

Chissà se un pomeriggio di fine Marzo che sembra Maggio, qualcuno dei miei alunni, incontrandomi distesa al parco, vecchia e arrostita dal sole, penserà a quanto io sia bella nel mio essere Libera.

Questo è l'augurio che mi faccio oggi, in questo Giovedì di bellezza inusuale.





mercoledì 29 marzo 2017

Giorno cinquantacinque: un quadro fiammingo.

L'ora legale è per me fonte di grande fastidio, ma la luce che sembra non avere alcuna intenzione di spegnarsi nel nero notte di qualche settimana fa, mi mette addosso una gran voglia di vivere.
Detesto l'ora legale perché mi ruba un'ora di sonno e perché anche se solo per qualche giorno, mi pare di avere sulle spalle tutta la fatica del mondo.
In realtà, però, non c'è niente che mi piaccia di più delle giornate interminabili che ci regala.

Oggi, poi, ce ne siamo andati in gita.

Un piccolo viaggio fuori porta, a dire il vero, un'esperienza bella di immersione nella natura in campagna, a poche ore dalla città. Tra ciliegi in fiore -nota di bellezza che ogni anno mi lascia incantata- e poiane che mangiavano dalle nostre mani nascoste in un guantone enorme, vitellini che a stento si reggevano sulle zampe e gelato fatto da noi, sorrisi sdentati sotto il primo sole davvero caldo dell'anno e canzoni sul pullman di ritorno verso casa, si sono fatte le sette.

Mi avvio stanca, ma leggera attraverso il parco.
Le sponde del Po oggi si sono popolate di ciclisti e corridori, papà con passeggini, coppie di anziani.
L'aria sa della perfezione delle cose nuove. All'angolo un fricchettone a petto nudo e piedi scalzi studia la mappa delle piste ciclabili delle città.
La luce di fine Marzo, così come quella di inizio Ottobre, è la più bella che ci sia: morbida pennellata sulle cose, sui volti, carezza lieve che addolcisce ogni asprezza.

Me ne torno a casa stanca, ma innamorata.

Proprio adesso che sto iniziando a disinnamorarmi della persona sbagliata, ritorno ad innamorarmi della mia vita. Curioso come a volte le cose siano, in realtà, l'esatto opposto di ciò che pensiamo.
Ero convinta che se lui mi avesse amata, mi sarei amata di più.
Invece no, funziona esattamente al contrario: appena smetti di rincorrere chi non ti apprezza, ricominci ad apprezzarti e ad apprezzare la meraviglia delle piccole cose, quelle che lentamente avevi smesso di notare, di fiutare, di scorgere intorno a te.
È un processo lento, dall'interno all'esterno, parte da dentro te stesso quando arriva la Consapevolezza e si muove, viaggia, verso il fuori.

Dov'era finita la luce di tutta questa bellezza?
Io l'avevo persa, insieme alla me che non voglio più essere.

E così mi lascio andare, m'immergo nel flusso che mi scorre intorno: dall'estero, stavolta, verso l'interno.
Mi ubriaco delle facce degli sconosciuti dentro le macchine ferme al semaforo: un ragazzo tatuato sorride parlando al telefono, una bionda cinquantenne si controlla il trucco allo specchietto, un anziano con il cane, in attesa di attraversare, mi sorride mentre lascio che il suo cane mi annusi la mano che gli ho appena teso per fare amicizia.
Al primo piano di un condominio basso un tizio vestito di bianco tinteggia la ringhiera del suo balcone, sotto un gruppo di messicani allegri si soffermano davanti alla vetrina dell'ottico commentando i prezzi degli occhiali di marca, dal benzinaio, intanto, una ragazza dai capelli lunghi sta facendo rifornimento: ha dei grossi occhiali da sole e un paio di scarpe rosse.
Non so dire esattamente cosa ci sia di straordinario in tutto questo, so solo che il quadro vivo di cui mi sento far parte, come se un pittore fiammingo ne avesse dipinto ogni minuscolo dettaglio, cambia la sua forma ad ogni istante riempiendomi di vita.
Da fuori a dentro, stavolta la corrente passa dall'estero fino dentro me.
Forse, in realtà, sono solo i miei occhi che tornano a vedere, naturale conseguenza di un cambiamento interno, di un atteggiamento differente.

Esterno ed interno che si intrecciano influenzandosi continuamente, costante scambio di segnali, messaggi, emozioni, forme e colori che mi possiedono espandendo la mia anima.
Vite incrociate, sconosciute che mi percorrono come scossa elettrica, vita che esplode, Aprile di sogni alle porte, di sogni rinnovati.

Da dentro a fuori.

O forse, viceversa.


lunedì 27 marzo 2017

Giorno cinquantaquattro: una settimana di non compleanno.

Ormai è passata quasi una settimana dal mio compleanno, eppure ogni giorno continuo a vedere qualcuno per brindare e a ricevere regali e auguri dalle persone più disparate.
Mi emoziona sempre l'idea che qualcuno abbia avuto un pensiero per me.
Che si tratti di due righe scritte di fretta, di un piccolo regalo o del dono più grande: del tempo da dedicarmi.

Da giorni continuano a scrivermi amici dalla Spagna, dall'Argentina, da molti posti lontani.
Ci sono i miei primi studenti, quelli che quando ho conosciuto avevo venticinque anni io e oggi ce li hanno quasi loro, mentre i miei attuali, che di anni ne hanno otto, mi lasciano disegni e poesie sulla cattedra ogni mattina.

Incredibile quanto certi legami non siano soggetti al logorio della distanza e del tempo che passa.
Ci sono incontri che ci portiamo dentro per la vita, volti che ci restano appiccicati sul fondo dell'anima, istantanee che nemmeno gli anni possono cancellare.
Dentro allo scrigno dei ricordi ci sono immagini mischiate che non potranno scolorire mai.
Ci sono le serate che iniziavano a mezzanotte, le Quilmes che non finivano mai e le empanadas, i concerti a Buenos Aires quando Gustavo era ancora vivo, i mercatini di design a Palermo, ci sono le giornate interminabili a scuola sui banchi insieme ai tredicenni, quando quello che volevo insegnare era a pensare con la propria testa - che è la stessa cosa che voglio insegnare oggi-, le rappresentazioni teatrali delle grandi opere letterarie, le feste di addio con i colleghi -che erano anche e soprattutto amici-.
Ci sono i mesi passati a Madrid, le tapas a casa Labra con gli studenti - che erano anche e soprattutto amici-, i fine settimana tra i tavolini dei bar, le domenica al Rastro dopo la colazione sotto casa con la miglior vicina che si possa immaginare di avere.

Ci sono ricordi e storie.
Ma soprattutto ci sono le persone che sono quelle cha fanno i luoghi e la mia più grande ragione di felicità.

Le persone che incontriamo ci cambiano. Le relazioni che intrecciamo, o che evitiamo, ci modellano, ci scolpiscono, scavano i nostri cuori in un costante evolvere, cambiare di forma, pur mantenendo la nostra unicità.
E ci sono poi le ultime persone che sono entrate a far parte dei miei giorni, quelle che conosco appena ma per le quali nutro sin dal primo incontro una sorta di simpatia immediata, una sensazione di piacere nell'averle accanto, come se le conoscessi da sempre.
Oggi, alcune di loro mi hanno regalato libri e fiori, due tra le cose che più amo in assoluto. Eppure mi conoscono così poco.

Non credo sia un caso, penso piuttosto che le sensazioni non mentano mai, che dobbiamo imparare a fidarci e ad affidarci, ad ascoltare quello che il sesto senso ci dice, prima che la nostra testa intervenga a razionalizzare.
L'intuizione, che ha in realtà una base fisiologica, non mente mai.
Mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se invece di combatterla le avessi dato più ascolto.
Ma mi rendo conto che ciò che è stato ormai è andato e che invece di ipotizzare voglio concentrarmi sul presente, voglio fare dell'esperienza insegnamento e da oggi in poi lasciare il giusto spazio alle sensazioni, concedermi il lusso di fidarmi di me.

Una settimana di non compleanno che non fa che stupirmi, confermandomi ancora una volta che la vita non è solo questione di fortuna, ma anche di curiosità, di capacità di tenere gli occhi spalancati sulla bellezza e le braccia aperte verso quello che arriverà a sorprenderci, fiduciosi che sarà molto di più di quello che pensiamo.







domenica 26 marzo 2017

Giorno cinquantatré: la vasca.

Nei miei sogni di adolescente mi immaginavo mamma a ventotto anni con una casa grande come quella in cui sono nata e cresciuta, una bella vasca da bagno e due gatti.

Di tutte queste fantasiose proiezioni, sono una risponde al vero.

Mamma non sono, vivo in una casa minuscola e ho una doccia: sì, è grande, ci si sta anche in due, ma non è una vasca!

Così ho sviluppato una sorta di complesso: l'invidia della vasca.
Quando entro nel bagno dei miei amici e vedo una vasca vengo colta da un desiderio fortissimo di averne anche io una, soprattutto perché con la vasca in casa ci ho passato la maggior parte degli anni della mia vita, viziandomi, nei momenti di stress, con un bel bagno caldo.
Quella del bagno lungo mezzo pomeriggio è una bella abitudine ereditata da mamma, solo che ora io, per poterla praticare ancora, devo tornare a casa dei miei genitori.
O chiedere asilo in uno dei bagni dei miei fortunati amici.
E così la domenica, a volte, quando vado a cena dai miei, ne approfitto per recuperare questa tradizione.

Oggi è stata una di quelle volte.

Ieri ho dormito poco e male.
Il cambio d'orario ha effetti negativi sul mio sonno.
Odio l'idea di dormire un'ora di meno perché il sonno per me è sacro e privarmi anche dieci minuti di dolce dormire mi crea irritazione.
Andare a letto alle tre con un caffè preso a mezzanotte non ha aiutato.
Così mi sono trascinata tutto il giorno questa stanchezza dentro e l'insoddisfazione di una domenica con la sveglia anticipata.
Dopo qualche ora di lavoro e malumore ho pensato che forse un bagno avrebbe potuto aiutarmi e così è stato.

Candele alla vaniglia, musica e sali da bagno.
Nient'altro, oltre al corpo accarezzato dall'acqua calda e i pensieri che evaporano uno dopo l'altro.
Immersi nell'elemento acqua ogni cosa sembra alleggerirsi, il corpo stesso che perde il suo peso ne è la prova, ci si ritrova liberi, in contatto con la parte più primordiale di noi, quasi come un ritorno alla dimensione del grembo materno.

L'accappatoio verde appoggiato sul termosifone tiepido, mi accoglie come il migliore degli abbracci.

Recupero pezzi della mia infanzia, recupero il profumo dei cassetti di casa mia, quello delle creme appoggiate davanti allo specchio, i colori del tappeto del bagno.

Intanto dal forno, il profumo di una lasagna invade la cucina.

Così anche oggi ho scovato qualche piccolo momento di felicità a rischiarare una giornata iniziata con il piede sbagliato.

Volersi bene parte dalle piccole cose come concedersi del tempo, regalarsi attenzioni.
Anche attenzioni apparentemente insignificanti come quelle di un bagno caldo in una giornata uggiosa.


sabato 25 marzo 2017

Giorno cinquantadue: il bicchiere mezzo pieno.

Capita, a volte, di avere degli amici straordinari.
Non tutti hanno questa fortuna immensa, io, però ce l'ho e non smetto mai di esser grata per questo.
Capita poi che ci siano periodi in cui di tutto hai voglia, tranne che di festeggiare, ma che, per fortuna, certe persone siano capaci, come per magia, di tirati fuori dalla tua melma interiore che altrimenti ti paralizzerebbe.
Questa è stata la terza sera in cui festeggiavo una cosa che avrei preferito dimenticare: il mio compleanno.
E così dopo una giornata già piuttosto piacevole nella quale ti sei anche regalata un massaggio - sì, perché ogni tanto bisognerà pur coccolarsi!- esci a cena con chi ti conosce meglio di chiunque altro, ti portano in un posto carino casualmente pieno di mongolfiere, le tue mongolfiere, un posto che non conoscevi e tra brindisi, candeline e fette giganti di Sacher ti torna il buonumore.
Sai che su quelle persone potrai contare per sempre, sai che l'amicizia, quella vera è l'unica forma di amore veramente eterno che esista, sai che quello che senti, loro lo sentono con te e sai che conoscono i tuoi desideri, le tue paure, le tue aspirazioni, la tua sofferenza.
Del resto se sono ancora accanto a te dopo tutti questi anni è proprio per questo, perché a loro puoi affidarti e che mai, sarai davvero sola.
Tra un calice di vino e una risata arriva il momento dei regali: un biglietto per un concerto, un buono per tatuaggio, un tuo ritratto disegnato da un'amica illustratrice, un libro, un magnete con una tua foto.
Sono regali pensati, ricercati, sono cose che solo chi ti conosce sa che amerai alla follia, solo chi ti conosce davvero sa che quei regali parlano di te, di sogni e di magia.
E allora ti senti davvero felice, perché l'amore ha mille forme e tra tutte quante non c'è incanto più grande di chi ti ama per quello che sei, senza volerti diverso, senza altro desiderio se non quello di esserci.
E senti che anche se da lontano, qualcuno a cui pensi ancora ti manda foto di conchiglie e parole, certe presenze sono più forti di certe mancanze e sanno sanare ogni assenza, anche quelle che bruciano di più.

Serve altro per poter sorridere, oggi?










giovedì 23 marzo 2017

Giorno cinquantuno: il manuale della nonna.

Mia nonna è stata -e sempre sarà- una delle persone più importanti della mia vita.
Una donna coraggiosa, forte, anticonformista nel suo vivere dentro la normalità, facendolo con quanto di più veramente alternativo si possa avere: la gioia.
Era analfabeta, ma sapeva raccontare come il miglior narratore di tutti i tempi. Non sapeva scrivere, eppure a ottantacinque anni iniziammo una sorta di quaderno insieme per imparare l'alfabeto. Ricordo che ridevamo insieme fino alle lacrime per quelle "P" panciute che sembravano omoni ubriachi, più che lettere.
Mia nonna era nata nel 1910, all'inizio del secolo scorso e se n'è andata nel 2015, quasi a centocinque anni. Ha attraversato più di un secolo, visto il mondo cambiare sotto i suoi occhi. Era così intelligente e curiosa che quando ho vissuto lontano da casa, mi parlava su Skype.
Spiegare ad una ultracentenaria cosa sia internet non è semplice, ma la cosa straordinaria è che lei lo abbia capito subito.

Rideva tantissimo, come pochi altri.
Rideva e sapeva far ridere.

La domenica faceva la pasta fatta in casa ripetendo un rituale di rara delicatezza con quelle mani che non si stancavano mai.
Quando andavo a trovarla c'era sempre una sorpresa ad aspettarmi nascosta nel primo cassetto del comò.
Le sue camicie bianche di cotone profumavano di buono e di lavanda.
A volte mi fermavo a dormire da lei: ci coricavamo e poi io le chiedevo di raccontarmi una storia. Lei iniziava e inventava sul momento, come un'abile improvvisatore fa sul palco di un teatro, poi dopo qualche minuto si addormentava. Allora io la incalzavo e lei, tornando vigile, riprendeva da dove aveva finito cambiando puntualmente il nome dei personaggi e degli animali sempre presenti nelle storie. Le sue erano fiabe rurali che parlavano del suo mondo: capre, galline, contadini, padroni e granai, città lontane, macchine da scrivere scambiate per radio, storie d'amore vissute di nascosto.
D'estate passavo due mesi da lei. Giocavamo ad aprire i papaveri indovinando se fossero rossi o bianchi, a contare i passi da casa fino al paese, a cercare le lucciole nelle notti di Luglio insieme ai vicini di casa, tutti insieme in cortile. Il giorno andavamo all'alimentari, l'unico che c'era: nonna mi comprava le violette, i bottoni del prete e le caramelle Sukai, quelle ricoperte di zucchero. La sua cucina profumava di forno. Quando la cena era pronta scendevo a chiamare nonno che in cantina stava lavorando sulle sue scarpe. Mio nonno era un calzolaio. Il profumo della colla insieme a quello delle nocciole è qualcosa che ricorderò per sempre. Accanto alle scarpe, a volte, c'era una cesta con un canovaccio e lì sotto, piccolissimi, gialli e spelacchiati, tantissimi pulcini appena nati.
I nonni sono un regalo che in pochi possono ricordare. Io i miei me li sono goduti fino a pochi anni fa e di questo sono grata alla vita.
Uno degli insegnamenti più importanti che mi hanno lasciato è quello di usare il buonsenso.
Sembra una banalità, ma non lo è, soprattutto di questi tempi.
Spesso viviamo per inerzia, lasciandoci trasportare dalla corrente di quella che ci pare la normalità e intanto perdiamo di vista le cose concrete. Lavoriamo più di quanto dovremmo, consumiamo più del necessario, adottiamo stili di vita che ci fanno male per aderire a ciò che ci circonda.
A volte ci ammaliamo perché la nostra mente sta male. Il corpo ci parla come riflesso di quello che abbiamo dentro. Se stiamo male dentro, staremo male anche fuori. Corpo e anima non sono due sistemi slegati tra di loro, per questo forse, molto spesso, basterebbe creare condizioni che ci arrechino meno disagio piuttosto che correre ai ripari quando arriva una malattia.
Mia nonna mi curava con le erbe, con il miele. Certi dolori li faceva passare con ricette segrete dove si mischiavano saggezza popolare e amore, dove non serviva molto altro oltre a ciò che la natura ci regala.

Qualche giorno fa ho trovato questo libro e me ne sono innamorata, perché mi ha fatto pensare proprio a questo.
Così cedendo alla tentazione, me lo sono comprato.
Questa sera, dopo una lunghissima giornata, mi siedo per la prima volta a sfogliarlo e tra ricette casalinghe, infusi, segreti e rimedi per la casa, ritrovo anche un po' di quella saggezza che mi è stata insegnata da Nonna.
Ecco che un semplice libro mi riporta a una persona a cui sono legata come a poche altre.
Ritrovo le sue mani, il suo abbraccio che era la cura migliore, ritrovo i suoi occhi grigio verdi e penso che ovunque lei sia, adesso, vorrei tanto un giorno poterle somigliare, soprattutto nel suo essere una vera anticonformista che professa il suo credo: vivere l'ordinario come fosse straordinario.




mercoledì 22 marzo 2017

Giorno cinquanta: un mazzo di fiori gialli.

Sono nata oggi, alle cinque di pomeriggio in una domenica di Marzo di trentasei anni fa.
Forse per questo amo dormire: perché la domenica è il giorno senza sveglia, quello da passare in casa a oziare, almeno ogni tanto.
Trentasei anni.
Qualcuno li definisce "il giro di boa".
Da qui in poi è solo un progressivo scivolare verso "il peggio".
Si invecchia, non hai più vent'anni e manco trenta, da oggi in poi ne hai "quasi quaranta".
Questo è ciò che dicono in tanti.
Questo è quello che ripetono, con cantilene diverse, ma tutte con la stessa rabbia negli occhi e lo stesso godimento nel potertelo dire, finalmente, anche a te, le donne tristi.
Io dico invece che mi piaccio più adesso che a vent'anni.
Adesso che ho le rughe che prima non avevo e un corpo più imperfetto, ma anche una consapevolezza nuova e una forza che non conoscevo.
Il giorno del compleanno è un momento duro in cui si fa il punto della situazione e quest'anno, per la prima volta, mi sono trovata a non avere quell'entusiasmo che mi portava a sentirlo come un giorno speciale, il mio giorno, quello in cui regalarmi attenzioni, quello in cui splendere, mettendomi al centro della mia vita.
I motivi li conosco uno per uno, potrei chiamarli per nome e riconoscerli al buio toccandone solo il profilo.
In fondo anche questo, il diritto alla sofferenza, fa parte della vita e va non solo accettato, ma abbracciato.
Anche il dolore può salvarci, se solo smettiamo di sfuggirgli, se lo accogliamo e lasciamo che fluisca, fino a quando con un vento nuovo si allontanerà.

Ma oggi voglio pensare a quello di bello che ho nella mia vita, non solo a ciò che manca.

La vita può essere molto dura, anche senza grandi drammi.
Lo è per tutti.

Ma io ho un mazzo di fiori che brillano dei colori dell'estate, il privilegio di riempire quasi le dita delle due mani coi nomi dei miei veri Amici, un lavoro che amo, una piccola casa che mi assomiglia, una famiglia che è rifugio, ho un libro da scrivere, una città dove tornare a vivere e ho la voglia di sperare ancora che qualcuno arriverà, prima o poi, e che sarà per restare.
Perché sono io, così come sono.

Trentasei anni sono troppi per credere nella felicità?

                                 https://www.youtube.com/watch?v=UW3IgDs-NnA








martedì 21 marzo 2017

Giorno quarantanove: la teoria del parcheggio sotto casa.

Ventun Marzo, ufficialmente primo giorno di primavera, giornata dedicata alla poesia.
Martedì Ventun Marzo, per la precisione, ovvero solo il secondo giorno della settimana, eppure sento già la stanchezza di tutto l'anno sulle spalle.

Ma è una stanchezza bella, di quelle che sanno di cose fatte, di pienezza e quindi chi se ne importa se dopo lavoro devo ancora impartire due ore di lezione extra di una materia che, detto tra noi, non mi è mai piaciuta e più tardi attraversare il traffico in macchina all'ora della follia quotidiana, quell'ora in cui solitamente mi muovo solo a piedi o con i mezzi pubblici proprio per evitarlo e infine, arrivare a casa e avere mezz'ora per cucinarmi una pasta e mangiarla al volo, prima di rimettermi in macchina e andare dall'altra parte della città ad un interessantissimo workshop fotografico dal titolo emblematico "Io progetto me" per rincasare, infine, alle undici passate.
Poco importa quando tutto questo si fa con la voglia di farlo, nonostante la stanchezza, nonostante il tizio dietro che appena scatta il verde ti suona insultandoti, nonostante tutto.

È bella la mia città di notte, soprattutto nelle sere di primavera in cui l'aria si fa tiepida e s'iniziano a tenere abbassati i finestrini, anche solo di qualche dito.
Bella ancor di più quando percorri il corso lungo il fiume e tra gli alberi sui marciapiedi scorgi il parco, il castello, le luci del palazzo di Architettura, ma soprattutto i ponti.
I ponti di Torino sono meravigliosi, illuminati nella notte ancor di più.
La mia è una città d'acqua, "La città dei quattro fiumi", così si intitola un meraviglioso libro di immagini di un grande fotografo che ho avuto la fortuna di conoscere, Dario Lanzardo l'ha raccontata splendidamente nelle sue foto che sanno di maestosa bellezza e squallido abbandono, passando dai luoghi più conosciuti ed eleganti del centro agli angoli dimenticati ai margini delle periferie.
La mia città è una città d'acqua, nonostante non abbia il mare. Dell'acqua possiede il magnetismo, la sensualità femminile dell'elemento liquido, la nostalgia lieve delle mattine di nebbia sul fiume.
Ho sempre avuto un debole per le città attraversate da un fiume, mi sembrano più complete, più materne, più accoglienti.

Torino poi, ultimamente ha questa cosa che pare vada di moda.
Roba da non crederci! Fino a qualche decennio fa quando ne parlavi immediatamente scattava tutto il repertorio sulla triste e grigia città industriale.
Adesso è tutto cambiato.
O così pare, forse così vogliono farci credere.
Al vero torinese, che diciamocelo, è un tipo strambo, piuttosto sotto le righe, a cui non piace molto essere notato, un po' fa piacere che qualcuno si sia accorto di quanto sia bella la sua città, ma un po' quasi lo infastidisce, si sente come se improvvisamente degli sconosciuti avessero invaso il salotto di casa sua senza nemmeno fare una telefonata per avvisare della visita.

Io sono una torinese un po' atipica.
Forse per questo, il fatto che si parli di Torino sulle più note riviste di viaggi, sui siti di tutto il mondo e che addirittura sia stata inserita nelle classifiche delle città più belle da visitare al mondo, non fa altro che riempirmi d'orgoglio.
La vivo un po' come una sorta di rivalsa: finalmente anche la mia città si è fatta notare!
Credo che si finisca sempre un po' per somigliare ai luoghi in cui viviamo, forse anche per questo mi identifico nei panni di chi finalmente, dopo un lungo restarsene assopita senza il desiderio di mostrarsi, un giorno si sveglia più bella nella consapevolezza di ciò che ha e non solo di quello che le manca e pronta a far valere le sue bellezze se ne va in giro a testa alta.

Così, dicevo circa mezza pagina fa, me ne torno a casa facendo queste riflessioni, persa nel fascino del nuovo volto della mia città e un po' anche nella sorpresa del mio.
E mentre saltello da un pensiero all'altra senza farci caso mi dirigo sicura verso casa alla ricerca di un parcheggio.
Vivo in una zona in cui trovare un posto dove lasciare la propria macchina è facile come scalare una montagna in infradito.
Però, contrariamente a quanto ero solita fare fino a qualche anno fa, la ricerca del parcheggio inizia proprio dalla mia via, dal posto più vicino al mio portone. E non si tratta di una questione di pigrizia, nient'affatto, quanto piuttosto di un cambio di prospettiva.
Un tempo parcheggiavo lontano, non prendendo nemmeno in considerazione la possibilità che un posto più comodo potesse esserci e mi dicevo che anche se ci fosse stato, sicuramente non sarebbe stato per me, che qualcuno più furbo o più veloce me lo avrebbe preso e quindi non aveva senso perder tempo.
Oggi invece ho capito che se cerchiamo qualcosa dobbiamo concederci di trovarlo, credere fermamente che possiamo trovarlo e che ce lo meritiamo.
Concedersi il diritto di avere quello che desideriamo è il primo passo verso la realizzazione di sé, questo mi hanno insegnato le porte in faccia. Se non siamo noi i primi a farlo, nessuno lo farà al nostro posto.

Concedersi il diritto e crederci.
Anche quando si tratta di un semplice parcheggio.

E infatti, trovo posto esattamente sotto casa.




lunedì 20 marzo 2017

Giorno quarantotto: l'importanza del coro.

Venti Marzo.

Equinozio di primavera.

Giornata della felicità, così l'hanno chiamata, secondo la moda recente di festeggiare ogni cosa.
In realtà, in questo caso specifico, potrei anche ritenerla un'idea interessante.
Mi sono comprata una borsa gialla.
Ho banalmente bisogno di luce e di calore, così come ogni anno di questi tempi.
Con l'arrivo della bella stagione anche il mio guardaroba cambia faccia: il mio corpo sente forte l'esigenza di illuminarsi, di alleggerirsi non solo nei tessuti, ma anche nei colori che diventano più lievi, accordandosi con quelli delle prime gemme e del verde nuovo che riempie le strade.

Leggerezza, quella che dovremmo coltivare come un dono.

Stasera a teatro abbiamo iniziato a provare per lo spettacolo di fine anno.
Non mi sono iscritta a questo corso con l'ambizione di un'attrice mancata, anche perché mi conosco e so che la dimensione del mettersi in mostra non è la mia, ma solo perché era qualcosa che da tempo mi chiamava.
Così, essere arrivata fino qui, seguendo un percorso faticoso e che scava in profondità, è per me l'epilogo migliore.
Lo spettacolo potrebbe anche non esistere.
So che non per tutti è così, so che ognuno ha le proprie aspettative ed è mosso da desideri diversi.
Ed ogni desiderio è sacro, va rispettato e compreso.
Ma mentre iniziavamo a imbastire lo spettacolo sul palco ho pensato che ero fiera di dove sono arrivata e non per un personale desiderio esibizionistico, al contrario, per far parte di qualcosa di comune che condivido con altre persone fino a qualche mese fa sconosciute.
Il senso di gruppo si forma con il tempo, è delicato, va curato facendo attenzione a non urtarlo, soprattuto nei suoi primi momenti di vita.
Ognuno di noi apporta alla dimensione collettiva il suo preziosissimo contributo che si declina nella diversità che caratterizzerà il gruppo stesso.
Ecco, io credo che il senso di un lavoro come quello teatrale risieda di per sé nel gruppo più che nel ruolo interpretato dal singolo attore.
Questo pensiero mi ha attraversata mentre andava in scena la prima vera prova del nostro spettacolo: i personaggi principali sembrano essere due, ma in realtà, così come nella tragedia greca, il coro svolge un ruolo centrale, ossia quello di accompagnare, sostenere e dialogare con i due protagonisti.

Allora, forse, sarebbe bello provare per un attimo a staccarsi dalla nostra umana e naturale tendenza a metterci al centro di tutto per cogliere invece la bellezza della dimensione condivisa, la forza di qualcosa di comune che trova in sé il senso di esistere.
Stasera ho avuto come l'impressione che fossimo parte di qualcosa di più grande, un qualcosa che funziona solo se può contare su tutti i suoi singoli elementi senza che nessuno spicchi sull'altro, un po' come in un' orchestra dove la melodia funziona solo quando gli strumenti lavorano all'unisono.

Credo che esistano pochi sentimenti così belli come il senso di appartenenza e questo è il mio motivo di felicità, oggi.







Giorno quarantasette: il caffè della domenica.

Funziona sempre che mi riprometto di rilassarmi nel fine settimana, che questa volta non farò mille cose, come al solito, ma passerò la domenica, almeno quella, in panciolle sul divano, al massimo una passeggiata.

Invece puntualmente finisce che nei due giorni di quasi totale libertà (ebbene sì, a discapito dei luoghi comuni che ci vedono nullafacenti, gli insegnanti lavorano anche nel week end: programmazione di tutte le lezioni della settimana e correzione di quaderni e verifiche) mi sembra che starmene a non fare nulla, ma proprio nulla, sia uno spreco di vita e quindi mi lancio in mille attività.
Ci sono fine settimana in cui pare si siano messi tutti d'accordo per organizzare cose interessanti e si fa difficoltà a scegliere.
Questo era uno di quelli.
Tra nuove uscite al cinema, conferenze, mercatini vintage, camminate in collina, concerti e spettacoli dal vivo.
In tutta quest'abbondanza di cose interessanti, ma anche stancanti, se vogliamo, quello che ho chiaro è che voglio cercare di non correre, di lasciare da parte, almeno oggi, la fretta. E il modo migliore per celebrare la lentezza di una domenica mattina è recuperare una bella abitudine che da anni ho trascurato: la colazione al bar.
Le caffetterie sono un luogo ricco di interessanti spunti di riflessione.
Ciò che amo di più di tutto è ordinare il mio caffè con cornetto - solitamente vuoto o al cioccolato- , sedermi a sfogliare il quotidiano e poi fermarmi ad osservare gli avventori.
Il privilegio di una mattina con del tempo da perdere, la fortuna di chi può fermarsi ad osservare la vita che scorre.
L'umanità che popola i bar, soprattutto quelli di quartiere con i loro clienti abitudinari, esercita su di me un'attrazione irrefrenabile.
Potrei passare ore persa nell'esercizio del guardare.
Ed ecco che un semplice rituale come quello della colazione fuori casa può diventare occasione di riflessione, fonte di ispirazione che trova sui volti degli sconosciuti e sulle loro storia, motivo di innamoramento.
Un caffè senza fretta a ricordarmi che la Domenica è bello anche non far nulla.
Almeno per il tempo di una colazione.



sabato 18 marzo 2017

Giorno quarantasei: una sera al cinema.

Quello che succede dentro ad una sala buia di un cinema qualunque, in qualsiasi parte del mondo, a qualunque ora del giorno o della notte è sempre e solo Magia.

Del cinema amo le sale poco frequentate, i film che vedono in pochi, le proiezioni pomeridiane, la sensazione del tempo sospeso. 
Entrare in sala è come abbandonare ogni contatto con la realtà, lasciare fuori noi stessi con la nostra vita e immergersi nelle storie che si proiettano sullo schermo.

Mi piace il momento in cui un uomo, generalmente sui cinquant'anni, ci strappa il biglietto prima di entrare ed accomodarci sulla poltrona che sceglieremo accuratamente tra quelle rimaste vuote.
Mi piace quando si spengono le luci e con il buio inizia quel momento sacro di annullamento dalla realtà.
Amo quando la gente inizia ad abbassare la voce e spegne i telefoni.
Detesto chi accende lo schermo fastidioso dello smartphone durante la proiezione o commenta con il vicino come se fosse a casa propria.

In un attimo siamo altrove: siamo in quelle immagini, sentiamo con il cuore e le viscere del personaggio con cui siamo entrati in empatia, soffriamo con lui, passeggiamo per quelle stesse strade e percepiamo gli odori di quel cibo, il profumo di quella pelle, la luce che arriva da quella finestra. 
Esistono poche esperienze estetiche più totalizzante del cinema, a parer mio.
Nulla come un buon film è in grado di riempirci ed elevarci.
Così questo sabato mi godo un film in buona compagnia, aspetto come sempre che scorrano tutti i titoli di coda alla fine, mi alzo con la sensazione di stordimento che ogni volta caratterizza la fine della proiezione. 

Tornare alla realtà esterna è sempre un po' violento.

Passeggiamo chiacchierando, scambiandoci le prime impressioni, confrontando opinioni. 
Poco più avanti, un altro cuore mi aspetta sul marciapiede.

Anche per oggi ho respirato la mia dose di Bellezza.




Giorno quarantacinque: Marte e Venere.

Venerdì diciassette, duemiladiciassette.
A voler essere scaramantici bisognerebbe restare chiusi in casa.
Invece io, che sì credo nella magia, ma non nella sfortuna, questo Venerdì me lo voglio bere tutto d'un fiato. 

Fuori l'aria profuma di Marzo, in giardino trovo una coccinella e il vento leggero che accarezza l'acqua del fiume sa di bellezza assoluta. 
Alle cinque attraverso la passerella con la migliore sensazione di libertà, quella del Venerdì pomeriggio, quella del suono dell'ultima campanella della settimana. 
Arrivo a casa, mi concedo un caffè sul divano e butto via le tensioni e la stanchezza accumulata.

Mi aspetta una serata con un Amico che non vedo da tempo. 
Le amicizie tra uomo e donna sono qualcosa di prezioso e raro. 
Parlo di amicizie vere, non di quelle situazioni ambigue che per praticità definiamo amicizie. 

Senza fretta mi sposto verso il ristorante dove abbiamo appuntamento e intanto torno a innamorarmi della mia città, così come spesso succede durante le lunghe camminate improvvisate tra le sue strade.
Le sere di primavera, soprattutto, ma anche nelle notti d'estate che non finiscono mai o nel silenzio delle piogge invernali. 
Ogni strada, ogni angolo, ogni marciapiedi ha una storia da raccontare a chi sa tenere gli occhi ben aperti.
M'imbatto casualmente in un cuore rosso per terra e sorrido, come ogni volta che uno dei mie amati segni arriva dal nulla a parlarmi. 
Un uomo a una finestra accesa fuma una sigaretta, un cane abbaia guardando invidioso gli amici rincorrersi sulla piazza, il suono di un pianoforte arriva da qualche piano alto. 
La mia città è bellissima, anche quando non me lo ricordo e spesso succede che quasi indispettita, me lo faccia notare nei modi più diversi: ammiccandomi dalle sue piazzette nascoste, splendendo sui tavoli di qualche nuovo dehors, seducendomi con le sue retrovie deserte. 
C'è un cuoco intento nel suo lavoro, lo scorgo dalla vetrata di un ristorante mai notato prima. Bello nei suoi tratti regolari, con un accenno di barba scura e gli occhi bassi, concentrati su qualcosa che sta mescolando. Una ragazza all'angolo si guarda intorno alla ricerca della targa con il nome della via, controlla sullo smartphone e riparte nel suo cappotto grigio. Il balcone sopra la sua testa è pieno di vasi di fiori gialli. Supero una coppia di mezz'età che parla a bassa voce commentando qualcosa e mi trovo quasi a destinazione.
La serata inizia a finisce con un abbraccio, quasi una parentesi che si apre e si chiude a contenere parole, risate e scambi di opinioni. 
Avere un amico uomo ti fa capire come si possa essere così diversi eppure così vicini nel modo di sentire, di affondare e di rinascere. L'amore, i timori, i commenti superficiali sui passanti, la birra e la bellezza di una serata qualunque. Profondità e leggerezza, due facce della stessa medaglia. Basta poco per farmi sentire di nuovo bene. Bastano certe parole e anche e soprattutto certi silenzi che sanno di comprensione, di capacità di ascoltare. 
Ringrazio il caso, che anche questa volta, mi ha fatto incontrare una persona importante. Succede anni fa, grazie a una fotografia. 
Succede, per fortuna, che a volte anche Marte e Venere si possano incontrare, seppur con le loro differenze, seppure nel loro essere lontani. 
Venerdì diciassette che sa di fortuna: la fortuna di una donna che brinda con leggerezza alla bellezza e alla pienezza dell'amicizia con un uomo.








giovedì 16 marzo 2017

Giorno quarantaquattro: un libro illustrato.

Il Giovedì sera di solito non ho nemmeno la forza di guardare un film perché so già con estrema certezza che mi potrei addormentare dopo venti minuti nella migliore delle ipotesi.
Questa sera non fa eccezione: anzi!
L'anno scolastico che rotola rapidissimo verso l'epilogo inizia a farsi sentire, le lezione di yoga mi fanno rincasare tardissimo e così succede che salvo una piccola pausa di qualche ora, me ne stia praticamente fuori di casa tutto il giorno.
Mentre torno in metro con la faccia stanca e stropicciata dalla fatica, un tizio davanti a me inizia a parlare di pizza: ecco, anche stasera finirà come ogni Giovedì che si rispetti!
Mi spazzolo una Margherita in dieci minuti precisi, poi capitolo sul letto e a gambe incrociate, in compagnia della mia gatta, mi godo la mia piccola felicità di oggi: le lettura di un bel libro illustrato.
Ho sempre amato disegnare sin da quando ero piccola e fino a un certo punto me la sono cavata anche discretamente bene.
Poi, non so se perché non sono stata capace di coltivare e approfondire la cosa o perché semplicemente sono cresciuta e i miei disegni hanno smesso di apparire interessanti agli occhi dei più, ho smesso.
Sbagliando.
Perché quando qualcosa ci appassiona e fa risuonare emozioni dentro di noi, non dobbiamo
allontanarcene per nessuna ragione.
Ma questo l'ho imparato più tardi.
I libri illustrati sono la sintesi perfetta di due cose che adoro fortemente: i libri e i disegni.
Li ho riscoperti soprattutto da quando lavoro coi bambini e ogni volta che entro in una libreria, mi dirigo sicura alla ricerca di qualche chicca che racchiuda parole e immagini.
Ce ne sono alcuni veramente meravigliosi, pagine che fanno sognare trasportandoti con qualche linea e qualche macchia di colore in mondi lontani, immaginari o in luoghi già vissuti. Se aprire un libro è entrare in una storia, aprire un libro illustrato è immergersi fino al collo nelle atmosfere e nel respiro di quella storia, vederla risplendere, commuoverci per la sua bellezza.

Sfoglio il libro, leggo qualche parola, bevo dalla mia tazza a fiori, guardo Frida che mi spia di sottecchi.

Anche questa può essere felicità, intensa felicità racchiusa tra le pagine di un libro e le pareti di una casa a godersi il primo momento di pace dopo una giornata che sembrava infinita.




mercoledì 15 marzo 2017

Giorno quarantatré: pictures of you.

Quando per anni immagini la tua prima casa pensi a ogni minimo dettaglio: fantastichi sul colore delle pareti, su come decorare il terrazzino, pensi ai cuscini che popoleranno il divano, immagini lo zerbino, le tazze nella vetrinetta, la forma degli specchi.

Qualche giorno fa, rovistando tra vecchie carte e diari ho trovato un appunto che recitava all'incirca così: "Ho voglia di un minuscolo nido dove rifugiarmi. Mi bastano quattro mura appena, dei gatti acciambellati sulle mie gambe, una parete di libri e tante foto appese."

Posso affermare senza ombra dubbio di esser rimasta fedele al mio desiderio e scendendo a patti con la realtà -accettando qualche inevitabile compromesso- il mio minuscolo nido me lo sono creato tale e quale a quello descritto in quelle poche righe.
La forza dei desideri è potentissima, soprattutto quando accarezzi a lungo l'idea di qualcosa e nell'attesa lo crei nella tua testa molto prima di vederlo realizzato.
Dell'oggetto desiderato curi ogni dettaglio: ne assapori la luce, senti il suo profumo che ti pervade, lo sfiori con delicatezza, fermamente convinto che un giorno sarà tra le tue mani.

Poi quel giorno arriva, dopo anni di case condivise, camere in subaffitto, coinquilini che parlano altre lingue. Arriva dopo anni in cui sei cresciuta e il tuo mondo, la tua vita, non ci sta più in una sola stanza, le convivenze iniziano a starti strette, vuoi il tuo spazio.
Sono giorni convulsi di scatoloni e fatica, scale fatte e rifatte mille volte, giorni in cui entri in una casa vuota che lentamente prende forma: le quattro pareti si accendono dei tuoi colori, arrivano due gatti. I libri disposti in file disordinate, senza seguire un apparente filo logico, riempiono i ripiani delle librerie.

Solo una cosa manca: le foto al muro.

Manca una cosa che non è casuale.
No, non è un caso che a mancare, dopo molto tempo, ormai, siano ancora le foto alla parete.
Hai sempre amato fotografare, l'obiettivo è un terzo occhio che ti segue ovunque tu vada.
Fotografi con gli occhi, prima che con la reflex, prima che con il cellulare, prima che con la vecchia Holga sgangherata, prima che con la tua macchina analogica.
Fotografi in continuazione, mentre cammini tutti i giorni e trovi particolari, dettagli, attimi, sguardi, espressioni, volti, colori, cieli, balconi popolati di anziani, luci accese nella notte.
Fotografi mentre prendi il pullman, quando parli a scuola con gli occhi meravigliati dei tuoi bambini, mentre siedi in un bar con il giornale aperto e non riesci a leggere, distratta dall'incessante quantità di immagini che ti girano intorno: avventori frettolosi, tazzine usate sul bancone, le braccia scolpite del barista, il cappello del vecchio, la mano della cameriera che ti porta il tuo cornetto.

Perché mancano ancora le foto alle pareti?

Te lo chiedi da un po'.
Mille volte ti sei detta che quel giorno libero che avevi, quel fine settimana, quel mese intero di vacanza lo avresti dedicato a scegliere, stampare, incorniciare e appendere le foto.
Ma non lo fai mai, non ti decidi.
Forse ci sono troppe foto che ami, forse solo non hai ancora imparato a scegliere, perché fino ad oggi, alla fine, hai sempre lasciato che a scegliere fossero gli altri.
Fino ad oggi, appunto.
Oggi infatti ti sei ritagliata qualche minuto di tempo per iniziare a guardarle quelle immagini e riguardandole ti sorprendi di tutta la vita che custodiscono.
Tornano le sfumature che avevi dimenticato, quelle di un pranzo in campagna sull'erba con una bottiglia di rosso, gli amici e la bici,  tornano i colori del mare in inverno, le tue orme e il bianco della schiuma. Torna l'odore di quel pomeriggio per le strade di Lisbona a mangiar pasteis de nata, il vento sul Tago, le terrazze di Madrid, quelle dove se alzi un dito tocchi il cielo.
Tornano i profili nei ritratti, gli occhi che ti scavano dentro, il nero di certi sguardi, il bianco di certe notti in bianco.
Torna quella volta in cui la montagna non era più un posto noioso, ma un concentrato di bellezza e vertigine sotto cui si apriva una libertà tutta nuova. Torna quella mattinata al mercato delle pulci insieme ad un'amica, quando sei tornata a casa con una valigia anni settanta e un tavolino di vimini trasportato sul tram che attraversa l'intera città, tornano volti che avevi perso, luoghi sbiaditi.
E torna anche la voglia di sviluppare quell'ultimo rullino che hai quasi finito, quella pellicola che è rimasta imprigionata nel corpo nero della macchina da ormai otto o nove mesi e le foto che hai scattato in tutto questo tempo nemmeno te le ricordi.
Forse era questa la bellezza dell'analogico.
Credo che sia giunto il momento di scoprire cosa racchiude e da qui ripartire per portare a termine il mio lavoro fotografico.


Le mie pareti sono stanche di sentirsi così nude, chiedono immagini che raccontino storie a riempirle di bellezza.

Il primo passo è già stato fatto.

Oggi.




martedì 14 marzo 2017

Giorno quarantadue: il chilometro zero.

Il chilomentro zero è il punto da cui si parte, almeno per me.
Ed oggi io sono al mio chilometro zero.

Oggi, inizia una nuova sfida con me stessa, una promessa che mi faccio e a cui voglio mantenere fede per arrivare preparata al mio obiettivo.

Difficile affrontare un cammino lungo molti chilometri senza essere allenati.
Del mio amore per le camminate ne ho già parlato e del mio sogno del cammino di Santiago, anche.
Sento che è il momento e che ha senso farlo adesso. Inutile rimandare, insensato rinunciarci.
Da anni corteggiavo questo progetto, quasi con un timore reverenziale.
L'idea c'era, era lì, brillava allettante da lontano, ma era come se non mi sentissi mai pronta, mai all'altezza.
E poi arriva il giorno in cui apri gli occhi e ti dici che sì, adesso è arrivato il momento, ora non puoi più posticipare.
Non sai nemmeno spiegare il perché, ma senti di essere davvero ad un bivio della tua vita e quasi come a volerlo celebrare, ti affidi metaforicamente a quello che è il sogno di un progetto che accarezzi dentro di te da moltissimo tempo: un viaggio a piedi, il tuo primo viaggio a piedi.

Così infilo le scarpe da camminata, quelle buone e inizio leggera ad andare.

Prometto a me stessa di camminare almeno un'ora al giorno, anche quando il tempo non sarà clemente, anche quando sarò stanca e desidererò solo arrendermi al divano, anche quando di tutto avrò voglia tranne che di muovermi.
Non si può arrivare impreparati ad un momento importante.

Le cose belle sono faticose, a volte richiedono pazienza, dedizione e costanza, quella che spesso mi è mancata.
E questa volta so che devo ascoltarmi senza cedere alla tentazione di trovare scuse dietro cui nascondermi.

Il mio primo allenamento passa in fretta: mentre cammino veloce nella luce delle sei di un pomeriggio di Marzo sento che la forza sta tornando nelle gambe e nel cuore, che non importa esattamente verso dove, ma che l'importante adesso è ripartire, mettere un piede dopo l'altro e tornare verso me stessa.

Senza paure, grata e fiduciosa perché il cammino si costruisce andando.

"Caminate no hay camino, se hace camino al andar", proprio come il grande poeta Machado diceva.

                                       
                                         https://www.youtube.com/watch?v=Q1fqF-5Y6ZQ






lunedì 13 marzo 2017

Giorno quarantuno: l'eccezione.

Le giornate che si allungano e la luce che torna a riempire il cielo mi fanno venir voglia di camminare.
Oggi vado a piedi a teatro.
Una passeggiata di una quarantina di minuti a passo sostenuto, nella quale mi concedo anche qualche piccola sosta per una foto o per osservare il fiume.

Cammino persa tra i miei pensieri, le mani in tasca nel cappotto grigio con gli alamari, i primi fiori gialli che tornano a far capolino qua e là, le canoe sull'acqua che scivolano tracciando segni come pieghe sulla seta.

Davanti a me due ragazzi sulla trentina. Lui capelli corti e sorriso pieno, lei bella, caschetto castano e occhi grandi.
Vanno alla stessa velocità, ogni tanto si guardano e mentre parlano di chissà cosa ridono, con pienezza e allegria.
D'un tratto lui la supera, si avvicina veloce a un cespuglio di fiori lilla, li odora, si china per raccoglierne un mazzetto e glieli porge in un gesto senza pretese, quasi d'altri tempi, in un gesto ingenuo, ma autentico.
Lei li prende e ridono di nuovo, insieme.
Lui di nuovo accanto a lei, lei sulla sua sedia a rotelle.

Penso che debba essere bello incontrare qualcuno che abbia voglia di andare al nostro stesso passo, qualcuno che ci voglia per ciò che siamo, esattamente così come siamo, con le nostre parti mancanti e i nostri enormi nodi da sciogliere. Qualcuno a cui non importi nulla se abbiamo gambe o ruote per andare avanti, se il nostro profilo non è perfetto, se le nostre ferite sono ancora aperte.

Sono fortunati loro ad essersi incontrati.
Sono fortunati soprattutto se riusciranno a non perdersi.
E con questa certezza continuo a camminare sorridendo, felice della felicità di due sconosciuti, sicura che valga la pena continuare a sperare nell'Eccezione.





domenica 12 marzo 2017

Giorno quaranta: con la testa tra le nuvole (pesci nel cielo).

Seguendo la logica del sabato del villaggio di cui, come già detto in altre occasioni,  mi sento portavoce, non so se sia più difficile il lunedì, quando tutto ricomincia faticosamente, o la domenica, il giorno in cui ancora ci si gode un po' di respiro, ma con l'idea fissa che dopo poco la festa sarà finita. Un po' come un carcerato che sa di dover rientrare in cella a breve, dopo una piacevole ora d'aria.
E non importa se il lavoro che fai lo ami, non importa che tutto sommato non sia così male la tua settimana.
La sola cosa che è sempre uguale, praticamente per tutti, è che la domenica è il preludio del ritorno alla fatica.
La domenica è fatta per riposarsi, io invece, solitamente, faccio sempre migliaia di cose e raramente ricomincio la settimana fresca come una rosa.

Oggi pomeriggio, rientrando verso casa in treno, mi perdevo in queste considerazioni superflue mentre innamorata della luce di marzo osservavo lo spettacolo fuori dal finestrino.
Sereno, con qualche rara nuvola a spasso per il cielo.
Pensavo alla mia fortissima attrazione per le nuvole e per tutto quello che sanno nascondere, o mostrarci, a secondo di quanto il nostro occhio sia attento.
Pensavo alle nuvole che passano veloci sulla mia testa quando sono distesa sulla sabbia e a volte, aprendo un occhio, quasi per errore, le vedo viaggiare trasportate dallo stesso vento che fa suonare le onde nel loro costante e ipnotico concerto di schiuma.
Poi pensavo alle nuvole di Madrid che raramente si affacciano su quel cielo blu di porcellana, ma che quando lo fanno sono come pennellate di bianco gonfio venute a incorniciare una tela già perfetta.

E pensavo alle forme che le nuvole nascondono.
Alle volte non sono altro che cumuli informi, matasse di grigio aggrovigliato, ma altre volte possono davvero sembrare volti, uccelli, conigli, fiori o poesie.
Le nuvole raccontano storie che solo chi ha voglia di guardare, con lo sguardo sorpreso e curioso, può percepire.

Io una volta, ad esempio, ho incontrato una nuvole che era un pesce.
Big fish, così l'ho chiamata ed era così incredibile che ho voluto fotografarla, per non perderne il ricordo.

Forse, allora, anche il nuovo lunedì che sta per iniziare può nascondere qualcosa di magico se solo fossi capace di andare oltre all'apparenza, se provassi a cercare un qualche significato nascosto all'insegna dello stupore, ricordando di tenere gli occhi spalancati sulla bellezza.
Proprio come quando nelle nuvole cerco la forma di qualcosa.

             









Giorno trentanove: la casa rotta.

Sono una bestia metropolitana, così amo definirmi.
Mi piace la città con il suo flusso costante di sconosciuti che mi fanno compagnia per le strade ampie, amo camminare con il naso all'insù a spiare dalle finestre le vite degli altri.
Mi piacciono le piazze, soprattutto quelle piccole e nascoste, i bar di quartiere brulicanti di vita rumorosa, i semafori lampeggianti sul lungo Po nella notte.
Non potrei vivere lontana dalla città, dalle sue storie, dalle mille opportunità che si dipanano davanti agli occhi quando una volta usciti dalla porta di casa, ci lasciamo andare- senza opporre resistenza- tra le onde del nuovo giorno.
Nonostante ciò, mi piace moltissimo anche la campagna che mi riporta alla mie radici, amo i silenzi delle camminate in montagna e le spiagge vuote d'inverno.
Credo semplicemente che i luoghi dove viviamo dicano molto di noi e che ad ogni epoca della nostra vita corrisponda una dimensione diversa.
Adesso per me è tempo di città. 
Forse verrà un momento in cui mi stancherò dell'incessante movimento delle stazioni e degli autobus con i loro passeggeri stipati, dei mercati rionali -condensati di vita disordinata- dei locali che aprono e chiudono con una velocità a cui non riesci a stare dietro e allora, solo allora, quando ne avrò abbastanza di tutto questo, mi ritirerò in un'altra dimensione.

Forse.

Nel frattempo, di tanto in tanto, sento forte la necessità di lasciarmi andare ad altri ritmi, di riappropriarmi della lentezza che vive solo lontana dalla città, degli odori della terra che ormai ho dimenticato.

Ho passato molte estati della mia infanzia a casa dei nonni, in campagna.
Ricordo quando giocavo a raccogliere i papaveri ancora chiusi e indovinare se dentro fossero bianchi o rossi. Lo facevo con nonna, così come preparare la torta Margherita o curiosare insieme a lei nel baule della biancheria.
C'erano le merende con il pane strofinato di pomodoro, olio e sale, i giochi tra i noccioli, i pomeriggi in cortile tra le galline e i gatti a giocare con abiti dismessi. Li usavamo per vestire i nostri personaggi sempre nuovi, nel gioco incessante dell'essere qualcun altro. Le maschere, le mille personalità, il gioco che poi ci si porta dietro per tutta la vita, lo si impara da bambini, recitando senza saperlo mille parti diverse.
E poi c'era il canto del cuculo nei pomeriggi torridi, l'unico suono che da solo è in grado di restituirmi tutto il mio essere bambina, coi capelli lunghi e rossi, molto più rossi di adesso. Riascoltarlo, persino oggi, ha sempre lo stesso effetto di strano sortilegio capace di fermare il tempo.

Dicevo, oggi mi concedo una parentesi in campagna, una giornata intera in un eco-villaggio, che in parte è tentativo di rispondere a una mia curiosità e in parte è un regalo che mi faccio per tornare a respirare un po' di calma.

C'è l'accoglienza dei ragazzi che abitano lì, una bella atmosfera di concretezza, il desiderio di scoprire qualcosa di diverso provando a non giudicare, ma mettendosi dalla parte dell'osservatore che guarda senza emettere sentenze. Questo è sempre l'esercizio più difficile che ogni giorno provo a ripetere con risultati altalenanti.
Dopo le presentazioni ha inizio una bella camminata nel bosco: un bosco magico, uno degli ultimi della zona. Intorno tanto silenzio, le colline verdi nel risveglio della primavera, un cielo pulito e l'assenza di fretta.
Interessante confrontarsi con qualcuno che abbia deciso di vivere in modo diverso la nostra epoca e anche quando non ci si trova d'accordo, è bello vedere come le persone, con le loro mille sfaccettature, i loro sguardi e le loro storie, abbiano sempre qualcosa di prezioso da offrirci, semplicemente raccontandosi.
Così si cammina, liberandosi dai pensieri, faticando sulle pendenze ricoperte di fango e fogliame secco, si fatica, ma quando si arriva al borgo dove i ragazzi stanno costruendo il loro villaggio recuperando un vecchio casolare abbandonato, ci si sente soddisfatti e pieni. Pieni di qualcosa che non si sa definire, ma qualcosa di bello.
E mentre poco dopo, una quindicina di persone diversissime tra loro per origine, età e percorsi di vita si ritrovano seduti un po' ovunque tra i cortili del borgo a gustare una prelibata pizza appena sfornata e parlare, c'è aria di famiglia e di festa. Sembra un lunedì di Pasquetta insieme agli amici di sempre, c'è la sensazione di quando si sta bene in un contesto diverso, eppure a noi famigliare.

Il calore della giornata ci fa compagnia fino a sera, quando tra le ultime chiacchiere e una tisana ci salutiamo portandoci via un sorriso e la sensazione di aver respirato di nuovo, di essere semplicemente tornati un po' a noi stessi.









Giorno trentotto: un piacevole car sharing.

Spostarsi da casa, si sa, è sempre bello.
Anche quando si tratta di un breve fine settimana non troppo lontano. 
Anche quando si va in un posto che si conosce benissimo, dove si sono passate le estati dell'infanzia a casa dei nonni e dove si torna regolarmente.

Oggi vado a trovare un'amica, -in realtà vari amici- che vivono relativamente vicino a casa, ma abbastanza lontano da fermarsi fuori un paio di giorni.
Ed ogni parentesi di evasione dalla vita di tutti i giorni è una vera benedizione, soprattutto quando è un periodo complicato, soprattutto quando vuoi uscire da un pensiero che non ti dà tregua.
Così, caso vuole, che un'amica in comune sia in città e si offra gentilmente di darti un passaggio e di viaggiare insieme.
Ed ecco che anche il tragitto diventa un'esperienza piacevole oltre che costruttiva.

Con alcune persone nasce da subito un'intesa immediata, sin dalla primissima volta in cui ci si vede.
Io credo che nelle amicizie, così come in amore, si viva di entusiasmi spontanei, ci si senta “a casa” sin dal primo istante in cui ci si stringe la mano recitando la solita parte in cui si ripete il nostro nome e concentrati su di noi, ci si dimentica puntualmente del nome dell'altro.

Le relazioni sono la cosa più preziosa.
Gli incontri con gli altri scrivono la trama della nostra vita, trama che noi andiamo a costellare di punteggiatura: virgole come pause di riflessioni, parentesi di distrazione, punti a capo che chiudono storie. E in questa spesso strampalata sequenza di conoscenze, amicizie, amori e disamori che si susseguono senza tregua noi troviamo il senso, il nostro personale senso delle cose.

Amo le persone e le loro storie, non potrei fare a meno della mia dimensione di animale sociale. Nulla come una nuova conoscenza sa riempirmi di entusiasmo e di nuova voglia di andare avanti, di scoprire, di vivere.

E così passare un'ora in macchina con qualcuno che si conosce poco, ma che si sente inspiegabilmente affine diventa un'esperienza interessante.
Si ride, si scherza e si riflette, ci si confida, si scopre che certi punti di vista possono essere condivisi anche con qualcuno che conosciamo a malapena e che la sintonia è una fortuna che va coltivata e preservata.

Mentre la sera tiepida declina nel buio fuori dal finestrino, mi abbandono felice al pensiero di tutte le persone che ancora dovrò incrociare tra i miei giorni e di quelle che già ho conosciuto e che mi hanno inevitabilmente lasciato qualcosa di loro, in un continuo scambio di anime.
Penso a tutti quelli che sono restati, alle loro voci che mi fanno compagnia e a quelli che se ne sono andati, perché di stare nella mia vita, proprio non ne volevano sapere o perché per loro, non c'era più spazio.
Tutti hanno lasciato traccia del loro passaggio, qualcosa che è servito a costruire la me che sono oggi e per questo, indipendentemente dagli errori, dalle porte chiuse in faccia, dal dolore che avrebbe potuto evitarsi, sento di esser grata anche a loro.

In una sera di inizio primavera torno a sorridere sul sedile di un'auto, in compagnia di una nuova amica, pensando a tutta la meraviglia che ancora mi aspetta, agli occhi sconosciuti che avranno un giorno un nome, alle voci che non ho ancora ascoltato, ma che diventeranno famigliari, alle risate che arriveranno e a quelle che se ne sono andate. 

In continuo viaggio, in costante cambiamento, in un susseguirsi sorprendente di incontri e addii, partenze e nuove mete.

In fondo, penso, forse è proprio questo il bello della vita.







giovedì 9 marzo 2017

Giorno trentasette: lettere scritte a mano.

Giovedì nove marzo, metto in ordine tra vecchie carte e documenti nel tentativo di mettere in ordine tra i pensieri.
Spesso faccio questa cosa quando ho bisogno di srotolare la matassa ingarbugliata che sento dentro.

A volta aiuta.

Sistemare il mobiletto marrone della stanza dove ho vissuto fino a pochi anni fa è stato un viaggio nel passato come in quel vecchio video di fine anni novanta, dove tutto si muoveva nella direzione opposta a quella più usuale: non in avanti, ma all'indietro.
Ho ritrovato vecchi diari e quaderni dove da sempre ho l'abitudine di registrare -in righe sparse- frammenti di me, pensieri sottintesi, attimi di giornate qualunque.
Ci sono racconti di traversate in traghetto con il vento profumato di salsedine, i primi piedi scalzi dell'anno su una sabbia appena tiepida di primavera, gli occhi scuri che incontravo ogni mattina sull'autobus per andare a scuola.
Ci sono valigie da riempire, liste infinite di cose da ricordare, qualche frase di canzoni, fiori astratti e ghirigori ad incorniciare le pagine.
Ma soprattutto, regine indiscusse della cronaca della mia vita, ci sono le lettere: tante, tantissime lettere.
Buste bianche, colorate, quadrate, rettangolari, indirizzi scritti in nero, in blu, in viola, indirizzi sbagliati, incompleti, indirizzi italiani, spagnoli, argentini. Calligrafie femminili, calligrafie eleganti, calligrafie rotonde, calligrafie straniere (e sì, perché ogni calligrafia è geograficamente riconoscibile con un po' di attenzione).
I fogli sono pieni di parole: raccontano giornate di amici lontani, di amori che finiscono, di vite che per un po' scorrono in luoghi diversi, quando la distanza era ancora un sentimento tangibile, sacro, straziante e meraviglioso, lontano dalla rete che oggi "unisce" (dividendo, in realtà) due persone che stanno dalla parte opposta del mondo. Quando ad accorciare le distanze, a colmare la nostalgia, arrivava una telefonata, al massimo un messaggio sul cellulare, uno squillo, ma soprattuto una lettera. E quella lettera la si aspettava come un bambino aspetta la notte di Natale, contando i giorni che ci separavano dal momento in cui era stata spedita, ipotizzando quando sarebbe arrivata. Ogni giorno tornavo a casa e controllavo emozionata nella cassetta della posta e intravedere una busta tra le pubblicità e le carte inutili che la riempivano era una festa che dava senso a una giornata insignificante.
A volte credo che la cosa più grave di cui tutta questa velocità, tutta questa immediatezza in cui viviamo immersi ci abbia privato sia proprio la bellezza dell'attesa, la magia dell'aspettare qualcosa. In quell'attendere infinito nascevano i sogni più grandi, dell'attesa si nutriva l'immaginazione, la fantasia fioriva mentre ancora non avevamo nulla tra le mani. Aspettare insegna a dare valore, a gustare qualcosa quando finalmente arriva, a scoprirci ancora bambini curiosi.

Oggi ho pensato che ho un'infinita nostalgia di quelle lettere, che sarebbe bello ricevere ancora una di quelle buste nella cassetta della posta in una mattina qualunque, una lettera a ricordarmi di quanto era bello avere qualcosa da aspettare.








mercoledì 8 marzo 2017

Giorno trentasei: un paio di occhi blu.

È iniziato ufficialmente quel periodo dell'anno in cui devo fare uno sforzo sovrumano per controllare i miei istinti di spendacciona senza soldi.
Durante i cambi di stagione, soprattutto nel passaggio tra inverno e primavera, devo controllare l'insana tendenza a comprare più del solito. Parlo soprattutto di vestiti di cui non ho assolutamente bisogno, ma il cui acquisto accompagna puntualmente, come un irresistibile rituale superfluo, questo periodo dell'anno.

Sarà che in concomitanza con le temperature che si fanno più dolci e le giornate che tornano ad accendersi, dopo mesi di sciarpe, maglioni extra large e stivali, si risveglia prepotente il desiderio di alleggerirsi, di qualcosa di nuovo da indossare per dare il benvenuto a una nuova epoca. Sarà che dopo un lungo periodo in cui siamo stati rintanati sotto le coltri del letargo invernale c'è voglia di aria nuova, di sentirsi più femminili, di copiare le farfalle che con le loro ali leggere colorano i cieli di primavera.
Non saprei.
Ad ogni modo, quest'anno meno che mai posso dare sfogo alla mia malattia di cui, sarò sincera, mi vergogno anche un po'. Così, impossibilitata ad assecondare i miei pericolosissimi istinti decido di ripiegare su un piccolo autoregalo: un braccialetto che da qualche settimana mi strizza l'occhio dalla vetrina ogni volta che ci passo davanti.
Sono stata bravissima fin' ora, l'ho ignorato per ben tre mercoledì di seguito! Oggi, però, proprio non ci riesco e così, considerata la cifra irrisoria che si aggira ampiamente sotto i venti euro, decido di concedermi una pausa dal mio digiuno consumistico. Entro nel negozio e tentennante tra due braccialetti chiedo consiglio alla commessa. Alla fine mi convinco che il primo che avevo visto, quello che riporta la frase più significativa, vince. Lo faccio riporre in un bel sacchetto di stoffa trasparente con tanto di nastrino rosso -io, l'incubo dell'ignara commessa che si vede obbligata ad incartare acquisti che aprirò dopo qualche istante- e non appena uscita dal negozio lo indosso immediatamente.
Soddisfatta come una bambina m'incammino verso la giornata che mi attende.

Non so ancora che oggi succederà qualcosa di speciale, ma ho fiducia che qualcosa stia per accadere.

In effetti, qualche ora più tardi, mi ritrovo a parlare con una persona che conosco solo di vista, un collega con cui ci siamo incrociati un po' di volte, ma con il quale non ho mai avuto modo di scambiare nemmeno una parola.
Di per sé c'è ben poco di straordinario in questo avvenimento.
Ma mentre chiacchieriamo tranquillamente di lavoro, mi accorgo, per la prima volta da quasi un anno a questa parte, che al mondo può esistere anche un altro paio di occhi oltre a quello che ho reputato l'unico degno di interesse fino ad oggi.
 Percepisco in un attimo, come in un'inattesa epifania, che al di là di ciò che perdiamo può esserci ancora dell'altro. Lo so, è un pensiero banale, eppure mentre la fine di una storia ci travolge e ci butta faccia a terra per l'ennesima volta ci pare di non vedere più altro se non ciò che non abbiamo più. Ogni volto intorno a noi perde di interesse, non esistono sorrisi come quello che amavamo, nessuno è degno delle nostre attenzioni, nulla richiama i nostri sensi.
Si è trattato solo di un istante, una frazione di secondo, ma da quegli occhi è stato come se si insinuasse una nuova luce a ricordarmi che qualcosa di bello può ancora attendermi al di là degli occhi che ho perso, oltre ciò che non c'è più, una luce nuova che sa di altre pagine bianche da iniziare.
E poco importa a chi appartenessero quegli occhi, perché di certo non sarà lui a riportarmi al mondo, ma quegli occhi blu, i primi occhi che mi sono concessa di guardare dopo il gelo di mesi, resteranno a lungo impressi dentro me come gli occhi capaci di sciogliere il mio freddo.





martedì 7 marzo 2017

Giorno trentacinque: sporcarsi le mani.

Sono giorni di fatica, questi. Ma nell'immenso sforzo di riaffiorare, cerco di tenere gli occhi ben aperti, spalancati, alla ricerca della bellezza per tornare a galla.

Stamattina la luce che mi ha svegliata era quella delle giornate ventose di Marzo.
Il vento è uno degli elementi in cui mi sento meglio.
Nel vento puoi abbandonarti e lasciarti trasportare, magari arrivare anche lontano da dove pensavi di andare. Puoi semplicemente affidarti e muoverti verso qualcosa che ancora non conosci. Oppure puoi giocare, senza opporti, senza il timore di apparire ridicolo e farti spettinare, lasciare che ti sollevi la gonna, che ti metta sottosopra i pensieri mischiandoli come carte in disordine.

Il cielo delle giornate di vento profuma di azzurro chiaro.
E oggi di quell'azzurro ne avevo un disperato bisogno. Così me lo sono bevuto tutto d'un fiato mentre abbiamo passato un'incredibile ora di lezione all'aperto, per essere più precisi: in serra.
A scuola abbiamo la fortuna di avere un meraviglioso giardino vista fiume, una serra e un piccolissimo orto dove portiamo i bimbi per avvicinarci alla natura e insegnare loro che le cipolle, il rosmarino e il basilico non nascono sugli scaffali dei supermercati o che la lavanda che profuma i loro armadi non cresce già impacchettata in piccoli sacchetti di stoffa. Per farlo indossiamo gli stivali di gomma quando piove o ci sporchiamo le mani di terra come oggi.

Toccare la terra è un gesto coraggioso.
Ci vuole incoscienza, di quella sana e anche fiducia per affondare le mani dentro quella misteriosa massa scura e fresca. Ci puoi trovare di tutto dentro: vermi, semi, fili d'erba, piccolissimo insetti o anche uova di lumaca, minuscole, trasparenti e opache.
A toccare la terra non siamo più abituati.
Abbiamo molta più confidenza con lo schermo dello smartphone o con la plastica della tastiera del pc. All'inizio può essere davvero strano. Eppure via via che le mani affondano nel mistero di qualcosa di così primitivo, puro e semplice, iniziamo a stare bene, a prenderci gusto, sentiamo che il legame con qualcosa che inspiegabilmente conosciamo, torna a riempirci.
Un bimbo oggi mi diceva che gli faceva schifo e a fine lezione non riuscivo a convincerlo che era ora di tornare in classe, perché le mani non le voleva più tirare fuori da lì.

Toccare la terra, riappropriarsi di una sensazione atavica di appartenenza, sporcarsi le mani.
Sporcarsi le mani è importante, questo ho imparato oggi e me lo sono portato dentro fino ad ora questo pensiero.
Quante volte evitiamo di esporci, di esprimere una sensazione o un pensiero per paura di mostrare davvero chi siamo, per evitare di prendere su di noi la responsabilità di essere quello che siamo? Troppe volte ho taciuto, ho ingoiato pensieri per timore di non essere compresa, apprezzata, amata.
Da oggi voglio recuperare il coraggio di essere pienamente chi sono, senza pensare che le mani debbano a tutti i costi restare pulite e lisce per poter essere strette da quelle di qualcun altro.
Da oggi voglio tornare a sentire la vita che esplode dentro la terra, sporcando, forse, ma anche salvando, soprattutto salvandomi, restituendomi a ciò che sono, senza paura del giudizio degli altri.

Da oggi voglio tornare a sporcarmi le mani, in un cielo profumato di azzurro.



                                         
                                       https://www.youtube.com/watch?v=fvfy8q7teU0



lunedì 6 marzo 2017

Giorno trentaquattro: metti una sera a teatro.

Peggio di un lunedì può esserci solo un lunedì difficile, più difficile del solito, intendo.

Oggi è stato una di quelli.

Dopo un accenno di mattinata luminosa ha ripreso a piovigginare e questo ha inciso sul mio umore già nero di per sé, per via degli strascichi della domenica.

Sogni fastidiosi, risvegli confusi, parole e immagini che arrivano da lontano e che sarebbe stato meglio non ricevere.
Ci sono momenti delle vita in cui tutto sembra confluire verso la rovina, come se improvvisamente si smettesse di vedere quello che di buono c'è intorno a noi. E inutili sono tutti gli sforzi che facciamo, inutile indossare un paio di occhiali rosa per cambiare punto di vista, inutile credere a ciò che gli amici ti dicono. Ci sei solo tu e il tuo essere scivolata nel buio. Ti dicono che ti rialzerai, che tanto tutto passa e che il tempo cura e più te lo dicono e meno vuoi sentirtelo dire, perché ti pare che tutto sia messo lì per sminuire l'autenticità del tuo star male.
E allora quello che avrei voluto oggi sarebbe stato starmene a casa con il mio dolore, sedermici accanto, abbraccialo. Stare lì in sua compagnia, inutile negarlo. Stare lì senza parole, senza volti, senza maschere da indossare, senza spiegazioni da dare, senza sorrisi di circostanza.

Invece è arrivato il teatro a salvarmi.

Il teatro è faticoso, me lo ripeto ogni lunedì sera quando con la giornata sulle spalle mi immergo in questo mondo strano nel quale sono finita quasi per caso.
Il teatro è faticoso, ti scava dentro, ti spoglia. Ti mette davanti a te stesso, senza scuse.
Ma ti salva.
Anche quando non sai farlo, anche quando ti senti ridicolo, nudo, fuori luogo.

Erano anni che ci volevo provare e poi, come spesso accade si rimanda, fino a quando un giorno, se una cosa deve arrivare, arriva.
Stavo navigando alla ricerca di tutt'altro quando dal nulla mi spunta la pubblicità di una scuola di teatro che, non so ancora spiegarmi il perché, mi incuriosisce, mi chiama. Così faccio un giro sulla pagina web e chiacchierando qualche sera dopo con un amico, scopro che conosce un ragazzo che frequenta esattamente quella scuola. Ovviamente lo prendo un po' come un segno e mi decido a contattarlo per chiedergli un parere sulla scuola: il risultato è che dopo pochi giorni mi iscrivo.

Questo luogo sa di magia, era qualcosa che già avevo intuito prima di metterci piede e di cui ho conferma la sera della presentazione dei corsi. C'è un piccolo cortile interno con un po' di verde dove posso lasciare la mia bici, una bella scala, è un luogo che sa di casa più che di scuola. Ma soprattutto c'è un mucchio di gente, ognuno con le proprie aspettative: chi pieno di timori, che spavaldo, chi timido, chi sfacciato. Ci sono quelli che si credono già attori, quelli che accarezzano il sogno di diventarlo, quelli che sono lì per caso. Poi ci sono io, che mi vergogno come una matta, ma che sono lì e che sono felice di averlo fatto, dopo tutto questo tempo.

Da quella sera sono passati quasi sei mesi.
Incredibile come un'avventura nata per caso possa cambiarti, emozionante come un gruppo di persone così diverse tra di loro per storie, età, ambizioni possa trasformarsi in un accogliente famiglia improvvisata.
E così anche se il teatro è faticoso, anche se tu non ti senti affatto portata per stare sotto ai riflettori, mano che mai su un palco, perché a te non è mai piaciuto essere notata, anzi, meno ti vedono e meglio stai, questa sera il teatro mi ha salvata da un amaro pomeriggio di lacrime.

E per questo voglio essergli riconoscente.

                                         
                                        https://www.youtube.com/watch?v=RnBl6JC6QNU

domenica 5 marzo 2017

Giorno trentatré: un caffè rivelatore.

Giorno trentatré.
Questo numero riveste una particolare importanza nella mia vita: mi segue e si presenta sempre durante momenti cruciali della mia vita.

Trentatré il numero civico di casa durante il mio anno a Malaga, quando attraversando tra i vicoli stretti delle case dei pescatori arrivavo in spiaggia in tre minuti e mezzo. C'erano il profumo dei gerani ai balconi e i colori degli azulejos sui muri delle casette basse, l'odore del sugo fresco dalle cucine, le signore tostate dal sole sedute sulla porta a chiacchierare.
Trentatré, la mia età nel mio anno a Madrid, l'anno in cui ho conosciuto me stessa per la prima volta.
Trentatré, tre e tre: due cifre simmetriche, uguali, che si rispecchiano, due cifre gemelle.
Il numero che trovo ovunque quando cammino per strada e alzo gli occhi verso una vetrina, quando guardo l'orologio, una targa, quando apro una pagina a caso, quando ho un posto prenotato su un treno.
Pare che il trentatré, per la numerologia, sia il numero dell'amore incondizionato. Questo un po' mi spaventa, mi ci ritrovo e a tratti vorrei che non fosse così.

Oggi, giorno trentatré, è stata davvero una giornata stramba.

Sarà che ieri notte ho dormito poco e male, sarà che queste prime avvisaglie di primavera luminosa che poi declina in un pomeriggio uggioso, per poi riaccendersi più tardi mi tolgono energia, o forse sarà che avrei avuto voglia di essere ovunque, tranne che dove sono adesso. Non so bene il perché, ma la sola cosa di cui avevo bisogno oggi erano un abbraccio che non è arrivato e un caffè rivelatore.
Quando sto vivendo momenti di particolare crisi e confusione ci sono alcuni luoghi dove amo tornare, come in una sorta di privato pellegrinaggio laico.
Una tappa obbligata della mia personale lista dei luoghi del cuore, è un minuscolo bar dove servono centinaia di caffè provenienti da tutto il mondo, un vero tempio del piacere per gli amanti della nera bevanda. A me del caffè piace più l'aroma che il sapore, per questo, come spesso commento con mia sorella, a volte mi preparo una caffettiera per riempire di rassicurante profumo la casa e poi nemmeno me lo bevo.
Ma nel mio minuscolo luogo del cuore, prendere il caffè è davvero un rituale irrinunciabile perché oltre a essere squisito mi perdo affascinata nell'osservazione della fauna locale seduta ai pochi tavolini che hanno come sfondo una fiorita carta da parati stile Inghilterra vittoriana. Ma la vera particolarità del luogo è che solo qui, sul fondo di ogni tazzina trovi scritto un numero che ha un messaggio da darti. Gli stessi numeri sono riportati su un cartellone, accanto alla porta d'ingresso. Per sapere cosa il destino vuole svelarti basta andare alla ricerca del numero che ti è capitato.

Sorrido, perché nella mia testa oggi c'era una persona che vorrei non passeggiasse più tra i miei pensieri. Il numero che mi è uscito è sempre lo stesso, il trentuno, fratello lontano del trentatré.
Così mi lamento scherzando con il simpatico proprietario che in tutta risposta mi estrae dalle tazzine pulite una nuova tazzina, con un nuovo numero, il settantuno: "Non tenere le sensazioni degli altri in ostaggio, scappano appena possono".
Penso che davvero a volte accadano cose strane, che ci mancava il settantuno a complicare tutto, a dare conferme che vanno guardate in faccia. Penso che il giorno trentatré, oltre a lasciarmi incantare dal gioco dei numeri, oltre a ricevere messaggi singolari dal caso, avrei bisogno di un segno che mi chiarisse dove sto andando, di qualcosa che mi dicesse che sto percorrendo la strada giusta.

Perché a volte, la vita, davvero è un gioco e io voglio continuare a giocare, fino a trovare il mio numero vincente.