venerdì 10 novembre 2017

Giorno centodieci: una rinnovata promessa

Le promesse più importanti sono quelle che facciamo a noi stessi.
Così scrivevo, esattamente un anno fa sotto la foto di un anello in ambra al dito anulare, una piccola promessa preziosa messa lì come un voto d'amore verso la me stessa che stava affondando in acque troppo scure.

A volte ci si dimentica che solo se lo desideriamo possiamo salvarci.
Così oggi, che di giorni ne sono passati tanti, rifaccio la stessa foto, su quello stesso ponte.
Per ricordarmelo.

I rossi, i bruni e i gialli sono gli stessi di quel novembre passato, ma questa volta l'ambra brilla sotto il sole pulito del primo giorno di acqua dopo quasi tre mesi ininterrotti di siccità, aria irrespirabile, polvere e aria sporca a imbrattare la pelle.
In un anno sono accadute tante cose. Ho aperto e abbandonato queste pagine, ho amato e perso, ho messo un punto, sto provando ad andare a capo.

Non è stato facile.
Non è facile.

Però i piedi riprendono a camminare con una strana fiducia, a volte saltellando leggeri tra pozzanghere grigie, a volte indugiando per chinarmi su qualche pezzo di carta scolorito perso da un passante. 
Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di liste della spesa cancellate, per me restano solo lettere d'amore che custodiscono storie da raccontare.

Ho questa stramba tendenza a fidarmi degli sconosciuti. 
Lo so, esporsi è pericoloso, affidarsi è un rischio, cedere alla lusinga di un'ipotetica felicità è puerile e alla mia età quasi sfiora il ridicolo.
C'è sempre un imprevisto dietro ogni sorriso, ciò che sembra autentico un attimo dopo rivela tutta la sa falsità in un interessato gioco di inganni.

Vorrei essere in grado di starne alla larga,
ma
-mi chiedo-
avrebbe senso vivere corazzati
dietro spessi strati di protezione
per evitare il rischio del fallimento?

Le foglie sono un tappeto appiccicaticcio di macchie colorate, l'asfalto è quello di un carnevale anticipato, sfoglio come un album di fotografie quest'ennesima mattinata di quartiere, il ponte sul fiume è intriso di acqua e nebbia sottile.
Si tratta di un istante, appena di un istante, mi chiedo se ne valga la pena, se invece non dovrei smettere di sorridere alla musica che mi entra dentro passando dalle cuffiette bianche al cuore fino ad arrivare alle caviglie.

Sono giorni di umido e caffè amari, pasticcini e abbracci che invitano all'abbandono, sono notti di poco sonno, di scarpe verdi bottiglia, giorni sgualciti dalla pioggia tanto attesa, parole sacre dette (con troppa leggerezza?), parole a cui non si vuol credere, parole in cui speri di poterti rifugiare, parole che suonano come una carezza.
Sono giorni in cui torno a infilare il mio anello al dito, rinnovo la promessa fatta a me stessa un anno fa e cerco di restare in questo assaggio di bellezza di quasi inverno galleggiando a occhi aperti verso un altro cielo.

Di questo nuovo salto nel vuoto voglio pregustare solo il tuffo felice alla fine del volo.














venerdì 6 ottobre 2017

Giorno centonove: autunno dolciastro.

Questa storia che l'autunno è una stagione triste, io non l'ho mai capita.

Venerdì pomeriggio: esco da scuola con il solo desiderio di silenzio e solitudine dopo una giornata delirante di quelle che ti abbattono.
Ma oggi non voglio lasciarmi vincere dalla pigrizia: poso libri e cambio rapidamente vestiti, scendo a prendere la bici in cantina.
E non appena imbocco il viale del parco capisco di aver fatto la cosa migliore che potessi fare.

Pedalare è sempre curativo, ancor di più nei pomeriggi tiepidi di Ottobre quando la luce e i colori sembrano un abbraccio pronto ad accoglierti con delicatezza.
Il vento scuote gli alberi, una pioggia leggera di foglie accompagna questa parentesi sospesa.
La luce sul fiume è quella della sera che si avvicina disegnando controluce sagome e ombre.
Mi siedo sulla sponda destra del fiume e senza bisogno di altro mi abbandono a un attimo senza parole, senza suoni se non quello dei remi dei canottieri e dell'aria che passa tra le fronde.
Un ragazzo coi pantaloni verdi, poco più in là, legge un libro, passa un cane e mi guarda, una signora con un maglione aperto passeggia con un'amica, mi sfiorano biciclette di passaggio.

Sono qui, ma la mia casa è ovunque.
Scrivo veloce sui tasti e torna l'odore del caffè che mi hai appoggiato sul comodino sabato mattina, quando il piumino leggero mi tratteneva senza lasciarmi alzare. La casa ha ancora segni di te sparsi ovunque: hai scordato una maglietta, gli occhiali da sole, dei fogli. Quando ho visto il tuo sorriso spuntare dalla scala mobile della metropolitana ho ricordato che sei fatto di carne e non solo di parole. Ti ho stretto e in quell'abbraccio c'erano dentro tutti i giorni in cui andavo a dormire pensando all'acqua che colora i tuoi occhi, c'era la meravigliosa insensatezza di quello che siamo, ma soprattutto la perfezione di una carezza sulla tua nuca appena rasata, la fortuna di poterti guardare ancora da vicino.

Ho sorriso e sono ripartita sulla mia bici.
Dentro un pomeriggio d'autunno, in silenzio, la perfezione che non aspettavo.









martedì 26 settembre 2017

Giorno centootto: la mattina ha l'oro in bocca.

Autunno nel cielo grigiastro e nelle prime foglie che adornano i marciapiedi.
Contrariamente alla maggior parte della gente che reputa settembre un momento di triste ritorno alla realtà, per me questo è uno dei mesi preferiti con tutta la magia dei nuovi inizi, i colori che amo di più a dipingere le strade, il desiderio di interiorità, di casa e di tepore che tornano a farmi compagnia.

Normalmente al mattino dormo, quando posso o vado a lavorare, quando devo.

Oggi, invece, anche se me ne sarei restata a poltrire sotto al piumone leggero in attesa di dover iniziare il lavoro, una serie di noiose questioni mi hanno obbligata a scendere dal letto.
In realtà, a parte il dramma nello scoprire di aver finito il caffè, la mattinata mi ha regalato piacevoli sorprese.

Vivere la città di mattino presto ha un fascino tutto suo.
Un fascino che ha la bellezza della vita semplice di quartiere, quella che si snoda tra i bar frequentati dagli avventori abituali (il barista, custode di segreti e pettegolezzi è una figura mitica a metà tra un sacerdote, un amico e uno psicologo. Li conosce tutti i suo clienti, uno per uno e salutandoli quotidianamente per nome rinnova con loro un legame stretto, rinsalda un patto sottinteso fatto di commenti sussurrati e sguardi eloquenti davanti al caffè macchiato o al ristretto di ogni giorno) e i piccoli negozi che ancora sopravvivono al feroce avvento dei grandi centri commerciali, non luoghi privi d'identità disseminati un po' ovunque.
Mi piace osservare le facce di chi siede ai tavolini mentre bevo senza fretta un caffè, spiare gli anziani che tornano dal mercato coi loro carrelli della spesa pieni, il nonno con il nipote per mano, la fila interminabile alla posta, il ragazzo riccio tatuato che pulisce i vetri di un portone, il postino con il gilet giallo fluorescente. 
Mi piacciono le bici appoggiate ai pali in attesa di qualcuno che le porti a fare un giro, chi cerca parcheggio senza esito, la farmacista che fuma una sigaretta davanti alla sua vetrina piena di prodotti per smettere di fumare.

Mi piace la quotidianità, perché è lì che giace lo straordinario.
No, non è questo che ci soffoca facendoci cadere nel circolo vizioso e annichilente dell'abitudine. 
L'abitudine può essere poetica se non diventa scusa per fermarsi. 
Mi piacciono le piccole cose, quelle che nessuno nota, quelle che per gli altri sono ovvie, scontate, invisibili.
Amo restituire loro l'importanza che hanno, perché in fondo, la felicità è fatta di cose semplici e sempre di più ne sono convinta.

Bevo il mio caffè, pensando a tutto questo.
E mi sento bene. 
Senza motivi apparenti.








venerdì 1 settembre 2017

Giorno centosette: primo settembre.

Mi piacciono le gambe abbronzate di settembre e gli uomini che hanno il coraggio di non depilarsele,
mi piace il gelato crema di riso e pistacchio che prometto sempre a me stessa di non mangiare un giorno sì e l'altro pure, ovviamente senza tener fede alla mia promessa,
mi piace la luce netta di fine estate che taglia gli spazi dividendoli in infinite e fantasiose geometrie inusuali,
mi piacciono gli sconosciuti che leggono sulle panchine, quelli che leggono sugli autobus, quelli che leggono sotto gli alberi,
mi piacciono quelli che leggono,
ovunque,
mi piace pensare che settembre è tornato vestito da capodanno, come se davvero tutto dovesse ancora iniziare,
come se ogni cosa fosse da definire,
da scrivere,
da inventare,
mi piace tornare, ricominciare, prepararmi, immaginare ciò che verrà,
mi piace iniziare di nuovo ad andare a yoga, riprendere la piscina, accarezzare progetti che puntualmente resteranno tali ed imbastirne di nuovi che invece vedrò lentamente prendere forma,
mi piace perdermi nella mia città e nel perdermi trovarmi di fronte l'inattesa bellezza di un muro disegnato, mi piace non essere certa nel mio andare, perché nell'estrema sicurezza si cela l'impossibilità di inciampare, sperdersi, scoprire.

E mi guardo intorno
e mi accorgo che la mia vita è bella così com'è,
che io vado bene,
così come sono,
imperfetta,
inconcludente, sempre pronta a rimandare,
disorganizzata,
distratta,
ma anche sempre fedele alla mia meraviglia, per citare parole di Qualcuno che le sapeva usare nel modo giusto
e che forse,
in realtà,
tutto questa storia che l'amore, la coppia, la stabilità sentimentale, rappresentino la felicità estrema,
la sola felicità possibile e perfetta,
inizia a sembrarmi un po' una farsa messa su per calmare gli animi,
per anestetizzare i cuori,
per stabilire un ordine preconfezionato da rispettare senza desiderarlo davvero (o desiderandolo, in alcuni casi, o ancora sentendo la necessità di essere come tutti, per poi finire a camminare annoiati uno di fianco all'altro ma senza nemmeno ascoltarsi).

Io forse sono fatta per cose diverse,
imperfette,
incomplete,
strambe,
sottosopra,
che a raccontarle sembro una ragazzina,
che chi mi ascolta a volte sgrana gli occhi: " A te le cose normali non piacciono"?
E certo che mi piacciono, mi piacciono le cose semplici e lineari, le cose autentiche, ma straordinarie.
E a volte questo viene scambiato per infantilismo,
qualcuno pensa che io non voglia crescere,
ma per me è solo, ancora e di nuovo, restare fedele alla mia meraviglia,
rispondere solo al mio modo di essere,
restare vicina a quello che sono.
A costo di continuare a camminare sola sotto la bellissima luce di questo nuovo inizio.

Settembre ritorna,
dopo un Agosto di bianco e blu, di sale e ocra, di passi tra i vicoli, di bicchieri infranti, di parole lontane, di abbracci che mancano, di "noi" inattesi, di buoni propositi che questa volta ho deciso di abbandonare.

Mi sa davvero che va bene così.
Inaspettatamente.



















venerdì 18 agosto 2017

Giorno centosei: Agosto in città.

Agosto in città è come la domenica sera.
La stessa malinconia ti assale vagando tra le strade deserte del centro, ma è una sensazione che può anche apparire dolce se ti lasci riempire dal silenzio inusuale della città assopita.

Sì, ad Agosto la città si addormenta, non è vero che muore, semplicemente impara altri ritmi: tutto scorre più lentamente, ogni angolo appare svuotato dai rumori e riemerge in una veste nuova.
Le vie di Torino tornano a correre parallele nel loro vuoto metafisico, nelle piazze fiorisce lo spazio perduto, i passi di qualche stanco turista si trascinano sull'asfalto bollente.

Agosto in città: croce e delizia che si ripete ogni anno.
Lenta processione di serrande abbassate su negozi silenziosi, persiane chiuse e appartamenti fantasmi (chissà verso quale meta saranno partiti i loro abitanti), anziani e disperati che popolano i giardini, l'estate che declina verso Settembre scolorendo nei suoi tramonti tiepidi.

Agosto in città è un atto di coraggio, si apprezza solo se davvero dentro di te è tutto a posto.
O se forse, una nuova felicità, si sta affacciando tra i giorni alleggerendo ogni ombra.
Io raramente riesco a bermelo tutto d'un fiato: qualche sorso tra una partenza e l'altra me lo fa apparire bello, imbevuto di un fascino solo suo.
Ma mentre lo dico mi attende una nuova valigia con le fauci spalancate e l'idea che al ritorno troverò il mio amato settembre dove ogni cosa ricomincia, dove un nuovo capodanno fuori luogo spalanca le sue braccia alle infinite possibilità di un ennesimo inizio.    
 

 




                                       https://www.youtube.com/watch?v=TGGOkp0VHac



lunedì 31 luglio 2017

Giorno centocinque: in cammino (senza pesi superflui).

Il caldo è massacrante, mi aggiro senza forze nella penombra della casa tra una stanza e l'altra cercando di riempire una nuova improvvisata valigia, per una nuova e improvvisata partenza.


Da quando sono tornata dal Cammino non ho fatto altro che sopravvivere al ritorno alla normalità.

Come ogni rientro è stato duro, ma più di qualunque altro rientro ho dovuto fare i conti con me stessa perché stavolta non bastava girare la faccia dall'altra parte quando la incrociavo riflessa nello specchio.

Camminare per giorni in mezzo a un meraviglioso nulla fatto di silenzi, colline morbide e gialle di grano, cicale e passi è un'esperienza stranissima che ti restituisce a una dimensione primordiale.
Ho sperimentato il caldo più insopportabile sulla testa, il peso dello zaino sulle spalle, il male alle gambe e il dolore e le vesciche ai piedi, il letto scomodo e i vicini sconosciuti che russano o fanno rumore, la sveglia all'alba, la sete che sfianca.
Ci sono state salite che mi sembravano infattibili e a metà delle quali ho avuto la tentazione di rigirarmi e tornare indietro.

Ma poi sono andata avanti, fino alla prima ombra, fino al primo paese o alla prossima fontana, perché in fondo ero lì proprio per quello, per provare a me stessa di essere in grado di andare oltre ad ogni imprevisto e fatica.

La dimensione del cammino è qualcosa di difficilmente comprensibile fino a quando non ti appresti a muovere il primo passo sulle tue gambe.
Puoi leggere, puoi ascoltare chi lo ha fatto, puoi guardare film e sfogliare libri di foto, ma nulla sarà comprensibile fino a quando non saranno le tue scarpe ad essere impolverate e le tue spalle a portare il peso che hai scelto di tirarti dietro.

Sì, questo soprattutto mi ha insegnato il cammino: che il peso che ci accompagna, in gran parte, lo scegliamo noi e io, ora mi è chiaro, non ho più bisogno di pesi inutili.
Durante il cammino si impara a selezionare con attenzione, a ristabilire una nuova priorità tra le cose, a portare con noi solo l'essenziale per poi abbandonarlo per chi ne avrà bisogno.
Voglio viaggiare leggera, magari anche più sola, ma senza zavorre altrui, senza le complicazioni superflue, senza timori non necessari, senza ombre ad oscurare il mio viaggio.
Preferisco la leggerezza dell'assenza al peso di una presenza non chiara.
Non ho più bisogno di portarmi dietro storie intricate, fiducia tradita, parole dette con leggerezza.
Preferisco scegliere con cura i pesi da lasciare.
E camminando nel nulla ho scoperto una me più forte del previsto.

Il cammino è pausa dalla fretta, è poesia dove intingere lo sguardo, è silenzio dove tornare a sentire i nostri passi e ritrovare la direzione giusta, quella che davvero sentiamo essere la nostra.

Le nuvole gonfie, i cieli bassi, le sagome degli sconosciuti che per brevi tratti ci camminano accanto, le lingue diverse che si intrecciano tra i giorni, il profumo delle pinete e della lavanda, le viti che si arrampicano sulle curve dolci, le vite che si arrampicano sulle salite difficili, i nomi dei paesi in una lingua diversa da tutte le altre, le scarpe che si sporcano, i lividi sulle spalle, i girasoli che sorridono, la doccia dopo ore di caldo e fatica, i piedi all'aria durante la sera, la birra chiara al tavolino di un bar, le comari del paese che parlano di cucina, il sentirsi parte di qualcosa comune eppure di così unico per ogni persona che cammina, la sensazione del tempo sospeso, il superfluo che svanisce, le cose vere che riappaiono, la mancanza che svela, il desidero che non finisca mai.

Il desiderio di tornare a camminare senza pesi superflui sul cuore.

































martedì 11 luglio 2017

Giorno centoquattro: cantando a squarciagola sotto un diluvio estivo.

Sono rimasta sette minuti sotto il tuo balcone, sette minuti a testa in su a fissarlo dal basso, senza dire una parola.

Per la prima volta mi sono fermata, invece che girarmi dall'altra parte perché prima di oggi posare lo sguardo su quel palazzo mi provocava un vuoto alla bocca dello stomaco.

Il portone spalancato, l'insegna gialla e rossa del meccanico al fondo del cortile interno, le buche della posta coi cognomi disordinati scritti in caratteri e colori diversi.
Ho ripensato a tutte le mattine umide in cui uscendo da quel portone con il cuore sgualcito mi ritrovavo in un secondo in mezzo alle voci straniere del mercato, tra i banchi della frutta e gli anziani con il carrello.
Io me ne andavo a prendermi un caffè, convinta che prima o poi avresti capito e che quel cuore, me lo avresti restituito intatto.
Questa mattina, però, me lo sono ripreso da sola.

Fissavo quel balcone con la faccia immobile, senza espressione, ma intanto, dentro, qualcosa finalmente si stava chiudendo di fronte a quel portone aperto.

E ha iniziato a piovere d'un tratto.

Invece che aspettare ho slegato la bici che mi attendeva accanto a quella che mi è parsa esser la tua e non curante dell'acqua ho iniziato a pedalare sotto una pioggia lieve che lentamente si è fatta più forte, fino a diventare un vero acquazzone di Luglio.

La pioggia d'estate è un regalo gradito, specie quando da giorni la canicola ti costringe a strisciare tra le ore del pomeriggio senza la forza di far nulla.

Me la sono presa tutta questa pioggia, senza paura, forse il mio primo temporale in bici.

Ho girato verso il parco, sceso senza pedalare e senza frenare la curva grande verso il fiume.
Tutto era verde e acqua, i pantaloni di lino ormai trasparenti, De André nelle orecchie, cantando a squarciagola.
Senza curarmi degli altri pochi pochi folli che incrociavo sul mio cammino ho percorso controvento e sotto il diluvio i viali alberati fino a un piccolo spiazzo dove mi sono fermata qualche minuto a riprender fiato e ad asciugarmi gli occhiali.

(...)
-" Ma chi è che fa l'amore sotto la pioggia"?
-"Quei due là, dietro l'albero. Li vedi"?
- " Ma non stanno facendo l'amore! Si stanno solo baciando!"
Un gruppo di ragazzini corre da un albero all'altro tentando di ripararsi come può commentando un incontro inatteso.

Sorrido tra me e me e riparto, finalmente senza pesi silenziosi sotto quest'acqua che lava via, cancella, pulisce dai residui tossici che incrostavano il mio cuore.
Non voglio più avere paura.




https://www.youtube.com/watch?v=7PJKcSXu_dM







mercoledì 28 giugno 2017

Giorno centotre: il debutto

Debutto: la prima volta in cui ci si presenta davanti a un pubblico, l'inizio di qualcosa di nuovo.

Debuttiamo centinaia di volte nella vita, così tante che alla lunga nemmeno ce ne rendiamo conto.

Eppure lo facciamo il primo giorno di scuola, quando iniziamo un lavoro nuovo, quando conosciamo i parenti della persona con cui abbiamo una storia, la prima sera che usciamo con lui o con lei.
Debuttiamo sui tacchi di un nuovo paio di scarpe, con indosso un cappotto mai messo, come madri, testimoni all'altare, tra i fornelli, al nostro primo abbraccio, la prima volta che prendiamo un aereo da soli, quando pronunciamo la prima parola in una lingua straniera, al nostro primo no.

Ho debuttato un numero infinito di volte nella mia vita incerta di precaria ultratrentenne.
Talmente tante che ormai gli esordi erano diventati quasi una rassicurante abitudine.
Così rassicurante che non appena ho avvertito una parvenza di stabilità mi sono sentita piuttosto destabilizzata, provando una sorta di vertigine inattesa e l'irrazionale dubbio di non esser fatta per le certezze.
Nemmeno per quelle provvisorie.

Due sere fa, sono salita su un palco per la prima volta nella mia vita.

Non saprei dire se l'ho fatto perché era qualcosa che da sempre mi attraeva o piuttosto perché era una cosa che mi terrorizzava e come la mia natura spesso mi porta a fare, mi ci sono tuffata dentro a capofitto come dentro a un'enorme e spaventosa onda.

Probabilmente per tutti e due i motivi.

Quello che so, però, è che difficilmente si può spiegare l'ansia che percorre ogni muscolo e ogni centimetro di pelle prima di uscire da dietro le quinte e abbandonarsi sotto la luce abbacinante dei riflettori, sotto quella luce che ti mette a nudo sezionandoti con il suo fascio potente, quella stessa luce che, al contempo, però, ti salva, annullando in un buio amichevole i volti seduti in sala.

Il pubblico: già, perché il teatro ha senso solo se c'è un pubblico.

Il pubblico dà un senso a quello che altrimenti resterebbe un banale esercizio di sterile narcisismo.
Recitare, o provarci, è come spogliarsi completamente, è affidarsi senza timori a chi è lì ad ascoltarti e ad osservarti, è accettare di esser ciò che sei.
Perché contrariamente a quanto si possa pensare, sul palco non ci possono esser maschere, al di là di qualunque interpretazione, anche la più magistrale, sei tu, solo con il tuo corpo, con le tue smorfie, con il tuo movimento e la tua voce.
Fare teatro è avere il coraggio di darsi per quel che si è, è un atto di generosità infinita, è provare a vedersi attraverso quegli occhi che nel buio sono lì a scavarti dentro.

Non credo di avere particolari doti da attrice, tutt'altro, eppure questo esordio è qualcosa che mi riempie di orgoglio.
Orgoglio per avercela fatta, per essermi sentita parte di un gruppo, per aver vinto contro la vergogna e la ritrosia a mostrarmi, orgoglio per questo altro piccolo passo verso la me che vorrei essere, una me che impara ad andar fiera di quello che è.

Ogni debutto porta con se un insegnamento, questo, lo ricorderò come il tassello mancante, come la prima tessera di un nuovo percorso verso me stessa.










martedì 20 giugno 2017

Giorno centodue: i giorni dell'arcobaleno.

Giorno centodue: in realtà siamo molto più avanti, non sono più riuscita a scrivere e mi sento in colpa per questo, ma come ho già detto altre volte, ogni tanto bisogna pur accettare i propri limiti.

Di limiti, stasera non voglio parlare, però.
Stasera voglio parlare di quello che mi ha reso felice, davvero felice, negli scorsi giorni, ossia riabbracciare un amico che non vedevo da sette anni, vederlo addormentarsi sul mio divano in pose assurde cercando di sopravvivere alle notti afose, fare colazione insieme con un caffè (sempre troppo forte per il suo palato argentino) e iniziare a ridere di una miriade di sciocchezze in una lingua inventata, una lingua segreta che ogni giorno cambiava forma riempiendosi di irripetibili neologismi.

Avere un amico da portare a zonzo è meraviglioso: improvvisamente ti scopri guida turistica della tua città, mentre ipotizzi percorsi inusuali che possano innamorarlo di casa tua.
Così si passa da un aperitivo in piazza in un bar estremamente elegante a una passeggiata tra le vie del quartiere più multietnico della città, da una serata a teatro a ridere di un' imbarazzante opera lirica a una birra con vista dall'alto della città, da una percorso nel verde del parco, a una giornata tra le colline a fotografar la lavanda in fiore.

Esistono poche cose stupende come gli amici e potersi ritrovare, superando la distanza di due continenti differenti, ne è la prova.
Anche se accade dopo tanti anni.

Ci sono persone capaci di intessere legami che vanno oltre la lontananza e la presenza fisica.
Chi ha vissuto lontano da casa, lo sa.
E sa quanto preziose possano essere anche le relazioni che nascono e si nutrono di email, chiacchiere su Skype agli orari più impensabili, chat e fotografie.

Certi amici sono così importanti che riescono persino a distrarti da qualcuno che non riesci a cancellare da dentro e così, mentre cerco di ritrovare un apparente equilibrio in casa, mentre passo l'aspirapolvere, carico tre lavatrici in un pomeriggio, sistemo lavori arretrati sul pc, mi viene da sorridere e da essere riconoscente verso il caso per certi incontri che porterò con me ovunque andrò, senza limiti di lontananza o silenzi momentanei.

L'amicizia è questione di scelte, così come ogni relazione.
Va curata, alimentata e protetta o rischia di appassire in fretta.

La felicità, anche lei, è questione di scelte.
Non esiste una vita perfetta, ma esistono motivi, migliaia di motivi, per scegliere di essere felici.
E questa sera, mentre scrivo al buio con la finestra spalancata su una strada animata da rumori estivi, sento di averne a sufficienza per poter sorridere soddisfatta.