giovedì 9 marzo 2017

Giorno trentasette: lettere scritte a mano.

Giovedì nove marzo, metto in ordine tra vecchie carte e documenti nel tentativo di mettere in ordine tra i pensieri.
Spesso faccio questa cosa quando ho bisogno di srotolare la matassa ingarbugliata che sento dentro.

A volta aiuta.

Sistemare il mobiletto marrone della stanza dove ho vissuto fino a pochi anni fa è stato un viaggio nel passato come in quel vecchio video di fine anni novanta, dove tutto si muoveva nella direzione opposta a quella più usuale: non in avanti, ma all'indietro.
Ho ritrovato vecchi diari e quaderni dove da sempre ho l'abitudine di registrare -in righe sparse- frammenti di me, pensieri sottintesi, attimi di giornate qualunque.
Ci sono racconti di traversate in traghetto con il vento profumato di salsedine, i primi piedi scalzi dell'anno su una sabbia appena tiepida di primavera, gli occhi scuri che incontravo ogni mattina sull'autobus per andare a scuola.
Ci sono valigie da riempire, liste infinite di cose da ricordare, qualche frase di canzoni, fiori astratti e ghirigori ad incorniciare le pagine.
Ma soprattutto, regine indiscusse della cronaca della mia vita, ci sono le lettere: tante, tantissime lettere.
Buste bianche, colorate, quadrate, rettangolari, indirizzi scritti in nero, in blu, in viola, indirizzi sbagliati, incompleti, indirizzi italiani, spagnoli, argentini. Calligrafie femminili, calligrafie eleganti, calligrafie rotonde, calligrafie straniere (e sì, perché ogni calligrafia è geograficamente riconoscibile con un po' di attenzione).
I fogli sono pieni di parole: raccontano giornate di amici lontani, di amori che finiscono, di vite che per un po' scorrono in luoghi diversi, quando la distanza era ancora un sentimento tangibile, sacro, straziante e meraviglioso, lontano dalla rete che oggi "unisce" (dividendo, in realtà) due persone che stanno dalla parte opposta del mondo. Quando ad accorciare le distanze, a colmare la nostalgia, arrivava una telefonata, al massimo un messaggio sul cellulare, uno squillo, ma soprattuto una lettera. E quella lettera la si aspettava come un bambino aspetta la notte di Natale, contando i giorni che ci separavano dal momento in cui era stata spedita, ipotizzando quando sarebbe arrivata. Ogni giorno tornavo a casa e controllavo emozionata nella cassetta della posta e intravedere una busta tra le pubblicità e le carte inutili che la riempivano era una festa che dava senso a una giornata insignificante.
A volte credo che la cosa più grave di cui tutta questa velocità, tutta questa immediatezza in cui viviamo immersi ci abbia privato sia proprio la bellezza dell'attesa, la magia dell'aspettare qualcosa. In quell'attendere infinito nascevano i sogni più grandi, dell'attesa si nutriva l'immaginazione, la fantasia fioriva mentre ancora non avevamo nulla tra le mani. Aspettare insegna a dare valore, a gustare qualcosa quando finalmente arriva, a scoprirci ancora bambini curiosi.

Oggi ho pensato che ho un'infinita nostalgia di quelle lettere, che sarebbe bello ricevere ancora una di quelle buste nella cassetta della posta in una mattina qualunque, una lettera a ricordarmi di quanto era bello avere qualcosa da aspettare.








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