martedì 13 giugno 2017

Giorno centouno: San Salvario non esiste.

San Salvario non esiste.
Con queste parole inizia una bizzarra passeggiata tra le vie di uno dei quartieri più affascinanti della mia città.
Domenica pomeriggio, cielo umido, l'afa estiva in anticipo sulla tabella di marcia.

San Salvario, il santo, forse non esisterà.
Esisteva però San Salvatore di Campagna a cui era dedicata una chiesetta di zona, nome successivamente storpiato in “San Salvari” in dialetto piemontese.

Ed esiste, di questo ne sono certa, il quartiere che ho percorso per infinite volte, quello che conosco e amo, quello che ancora fa male perché nasconde tra i suoi marciapiedi una ferita non sanata.
La mia ferita aperta ha lo stesso cattivo odore che sale dall'asfalto il giorno dopo la movida del sabato notte, ha il colore consumato dei muri scrostati, si chiama ricordo.
Certi occhi ti restano dentro per un tempo infinito e non esiste rimedio capace di cancellarli.

Nemmeno rimedio omeopatico.

Già, perché tra le tante cose che ho imparato passeggiando disordinatamente insieme ad un gruppo di sconosciuti, c'è questa: in via Cesare Lombroso c'era (e tutt'oggi ne rimane traccia in un edificio abbandonato pieno di calcinacci, targhette recanti i cognomi dei medici e stanze vuote) il primo ospedale omeopatico della storia italiana, un ospedale statale, addirittura, costruito per volere dei Savoia alla fine dell'Ottocento.
Oggi è uno di quegli spazi vuoti destinati ad un lento e inesorabile degrado, ma che sarebbe bello poter recuperare per regalargli una nuova vita.
Proprio di fronte l'antico orfanotrofio israelitico e poche strade più in là la moschea, dove veniamo accolti cordialmente nel giorno delle “moschee aperte”, giorno che coincide con la fine del Ramadan.
Ci tratteniamo una decina di minuti ad ascoltare con piacere uno dei responsabili della moschea.
È un signore dalla barba grigia e dai modi gentili che ci parla dell'Islam e del desiderio di far conoscere quello che accade dentro le moschee agli italiani, perché, in fondo, tante volte si ha paura di qualcosa solo perché non lo si conosce.
Ci invita a fermarci a mangiare insieme a loro per cena: in strada si stanno preparando lunghe tavolate per festeggiare con i vicini di casa la fine del Ramadan, tutti seduti allo stesso tavolo: veli, dialetti del sud, accenti piemontesi, leggins, cani e bambini.
Il canto del Muezzin indica l'inizio della preghiera.
Usciamo dalla moschea e ci dirigiamo verso il cine-teatro Baretti, altro luogo emblematico dove in una piccola sala tutti gli anni, si ripete il rito dei migliori film in circolazione e di interessanti spettacoli teatrali. Ricordo con piacere Rossy De Palma, la “Dama Picasso” e la sua commovente interpretazione del “Romancero gitano” di Lorca.
Ma prima del Baretti, e prima ancora della moschea, San Salvario ci regala la sorpresa di un orto urbano sul tetto di uno studio di architettura.
L'orto sul tetto, oltre a fornire zucchine e peperoni ai condomini, coibenta perfettamente l'edificio regalando un piacevole fresco a chi ci lavora dentro.
E poi di nuovo passeggiando, senza apparente meta, intrufolandoci in palazzi chiusi e sbirciando nelle vite degli altri, inciampiamo nelle figure mostruose scolpite sui palazzi eleganti, scivoliamo sulle pietre d'inciampo disseminate tra i marciapiedi, ci perdiamo senza fretta tra le bancarelle di un divertente mercatino del fumetto dove conosciamo un simpatico signore greco che alla domanda “ Ma tu, cosa vendi?” risponde sornione “ Io vendo la mia anima”! (in realtà si tratta di spillette dalle fogge più disparate).

Una passeggiata stramba, dal gusto lievemente anarchico mi riconsegna la mia San Salvario.
Proseguo, distratta da un uomo di spalle a una finestra aperta al pian terreno (quella nuca! Accidenti! Ho un debole per le nuche ben fatte, soprattutto per quello che me ne ricordano altre che dovrei scordare).

La voce calda del conduttore della nostra camminata è come un programma radiofonico che fa da sfondo ai miei passi, come una radio lasciata a volume basso per farmi compagnia.
Ogni tanto carpisco qualche parola, assorbo dettagli, mi soffermo ad ascoltare aneddoti.
Sorrido.

Mi piace questo andamento inusuale, dove individuo e collettivo si fondono in maniera anomala ma armoniosa.
In fondo sto passeggiando con un gruppo di sconosciuti per il puro gusto di riappropriarmi di uno spazio mio, mio come di chiunque altro.
Non è forse questo uno spunto per ripensare la cultura dal basso?
Un tentativo di recuperare il significato originario della parola "cultura", quello che più si avvicina al "coltivare"?
Cultura come terra che dà buoni frutti, libera finalmente dello sguardo snob ed esclusivo di chi la concepisce come un prodotto per pochi eletti.

Rifletto su questo, cammino e sorrido.

Ma soprattutto mi guardo intorno, guardo in faccia il mio ricordo e forse per la prima volta lo abbraccio, accetto l'impossibilità di cancellarlo, il desiderio che si affievolisca.
Convivere con ciò che non è più, è forse la più grande delle fatiche per me.
Ma in questa domenica dal sapore strambo tutto pare essere al posto giusto: le vetrine dei cingalesi piene di vodka, il Toretto che sputa acqua fresca, l'arabo e il catanese davanti allo stesso portone.

Tutto convive senza troppi drammi, oggi, qui, in questo quartiere che da sempre e nonostante tutto sa accogliere ed esser la casa di tutti.

Oggi San Salvario é anche casa mia.

La casa di tutti.















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