Tempo fa, tra le mie colline, si usava "cantar le uova".
Si tratta di un'antica tradizione del periodo di Pasqua diffusa in molte zone d'Italia.
Si andava di porta in porta e accompagnati dal suono della fisarmonica o di qualche strumento improvvisato, si dedicavano canzoni alla padrona di casa o a i suoi abitanti per ottenere la loro benevolenza e soprattutto qualche uovo da mangiare insieme agli amici durante il lunedì di Pasqua.
Mi hanno sempre incuriosita le tradizioni locali, a tal punto da farmi venir voglia, per qualche mese, di cambiare facoltà e passare da lingue ad antropologia.
Poi, purtroppo - o per fortuna- non l'ho fatto, ma mi sono limitata ad approfondire gli usi e i costumi dei popoli più disparati del mondo attraverso qualche sporadica lettura.
Forse la mia costante fame di viaggi è anche legata a quest'aspetto di me, alla curiosità sul come hanno sempre vissuto le persone nate e cresciute in un determinato luogo.
C'è sempre un legame, un'influenza sul nostro modo di essere e il luogo dove siamo nati, non per niente si parla di "Madre terra": la terra ci genera, ci dà radici e vita e come ogni madre ci lega a lei, a lei somigliamo anche in esilio dalla parte opposta del mondo.
Sabato sera, dunque, accolgo il richiamo di una delle centinaia di rivisitazioni in chiave moderna di questa tradizione e me ne vado a "cantar le uova" insieme ad amici, in mezzo alle colline.
Come in ogni sagra di paese la piazza è già piena del vociare dei suoi abitanti che passeggiano tra i vari stand, qualcuno già brillo dal tardo pomeriggio.
Si salutano tra di loro con la fierezza tipica di chi ha qualcosa di cui va orgoglioso da mostrare al"forestiero".
Piano piano le strade si riempiono di gente venuta da fuori.
Man mano che passano le ore i profumi della carne arrostita si mischiano con quelli della pasta fritta e del lardo, il vino rosso riempie il bicchiere appeso al collo della persone in fila disordinata, si inizia a far fatica a muoversi.
Sulle facce si accende il rosso di qualche bicchiere di troppo, le canzoni che iniziano a stonare confermano che il nostro vino è forte abbastanza anche per chi vi è avvezzo. Brillano anche le risate, i gruppi di giovani che si accalcano agli angoli della piazza, ognuno parte di una sorta di collettiva riscoperta di qualcosa di antico che continua ad esser sempre attuale, ognuno preso da una specie di allegria condivisa. Si parla tra sconosciuti, vecchi e giovani comunicano senza la diffidenza tipica che separa la generazioni, c'è aria di festa e d'estate che si avvicina.
Amo le manifestazioni popolari, mi piace l'idea di far parte di qualcosa di più grande.
Provo la stessa sensazione durante le manifestazioni di protesta che riempiono le piazze o durante i concerti.
Si tratta di una sorta di nostalgia di qualcosa di passato che ancora sa unire la gente, qualcosa che va al di là della realtà.
Per qualche ora ho come l'illusione che il morbo dell'individualismo estremo che ormai dilaga nelle nostre vite, si vada dissolvendo nella comune appartenenza a un sentimento che unisce.
Così tra pasta fatta a mano e bicchieri pieni, canzoni in dialetto e facce allegre, brindisi improvvisati con facce mai viste prima e risate incontenibili, si srotola tra il verde e il blu di una notte tiepida, il mio sabato sera.
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